La parola che canta
9 9 2017
La parola che canta

Seconda serata a Palazzo Te

Nel mondo della letteratura il 2016 verrà ricordato come l’anno in cui il Nobel per la Letteratura è stato assegnato a Bob Dylan. Nonostante le polemiche, da tanti anni nell’ambiente si avanzava l’ipotesi di riconoscere questo prestigioso premio al cantautore e, finalmente, è successo. Per celebrare questo evento, che sancisce il connubio arcaico e secolare fra poeti e musicisti, quest’anno Festivaletteratura - insieme al Centro Internazionale d’Arte e Cultura di Palazzo Te e il Museo Civico di Palazzo Te - ha ideato La parola che canta: tre serate di festa itinerante fra le splendide sale di Palazzo Te per avvicinare il pubblico all’incontro fra poesia e musica.


La parola che canta è sicuramente un evento di respiro internazionale. Nelle stanze e nei corridoi di Palazzo Te si incrociano voci da tutto il mondo. Simbolo di questo sincretismo può essere lo “scacciapensieri”, lo strumento di metallo con l’ancia diffuso in tutto il mondo, con nomi diversi, dal Vietnam alla Turchia.

A portarlo a Festivaletteratura sono però i Cuncordu e Tenore de Orosei, che lo chiamano Trunfa o Trumba. I riverberi creati da questo strumento fanno da intermezzo tra le esibizioni dei quattro artisti, che per cantare si dispongono a quadrato, creando una cassa armonica che risuona nel cortile dell’Esedra. Si tratta di canti religiosi in sardo che accompagnano l’anno liturgico. E, a ben vedere, la disposizione dei cantanti, più che un quadrato, è una croce. Ecco, se la prima serata de La parola che canta era più passionale e civile nei temi, questo secondo appuntamento sembra, non a caso, virare verso il sacro.

Lo evidenzia bene anche Antonio Rostagno, che nella lezione di musicologia nella Sala Polivalente illustra molto bene il percorso di Giuseppe Verdi, la cui attività, a torto, viene solitamente ricordata solo fino a Otello e Falstaff. Eppure, il Cigno di Busseto, negli ultimi anni della sua vita, virò verso la musica sacra. E lo fece mettendo in note il suo pPoeta preferito, quello che citava anche nelle conversazioni con gli amici: Dante. Curioso che il Poeta, nei cinque secoli successivi alla morte, sia stato messo in musica solo sei volte, mentre, da metà Ottocento in poi (il secolo verdiano), con l’affermazione della “musica assoluta”, Alighieri abbia conosciuto centinaia di trasposizioni musicali. Una delle più famose è proprio quella verdiana nelle Laudi alla Vergine Maria: San Bernardo prega, a nome di Dante, che gli sia concessa la visione dei misteri di Dio: «Vergine madre, figlia del tuo Figlio».

Un perfetto contraltare ai versi di Mariangela Gualtieri, che concluderà il suo spettacolo con la nota Ringraziare desidero intrisa di sacro: «per la bellezza delle parole/ natura astratta di Dio /per la scrittura e la lettura/ che ci fanno esplorare noi stessi e il mondo». E c’è tanta sacralità, infine, anche nei testi apparentemente “profani” di Umberto Fiori che chiudono l’evento, a notte fonda. Il poeta ha messo in musica numerosi suoi versi. Case, Bene, Apparizione: versi lapidari ed essenziali come i loro titoli che descrivono la realtà urbana fatta di palazzi, tangenziali e viali. Sono versi antilirici, antitemporali, «eppure solo a vederli/là fermi, diritti davanti al sole,/ i muri ti consolano/ più di qualsiasi parola»: in questo appiattimento a paesaggi asettici e grigi di smog, c’è una certezza che rende la poesia di Fiori religiosissima, seppur senza un dio.

Festivaletteratura