Liberi dentro
9 9 2017
Liberi dentro

Gli istituti penitenziari possono essere il punto di partenza per un solido processo di integrazione?

Sulle parole che Dostoevskij scrisse per raccontare della sua esperienza di isolamento e detenzione in Siberia si è aperto un incontro in cui tre voci, portatrici di punti di vista ed esperienze diverse, hanno riflettuto sulla realtà degli istituti penitenziari italiani e sulla loro essenziale funzione di risocializzazione ed integrazione. Il cosiddetto “cappellano dei musulmani”, Ignazio De Francesco, ha ricordato che, seppur meno del 10% della popolazione libera italiana, gli immigrati (regolari o irregolari che siano) costituiscono all’incirca il 30% della popolazione “dietro le sbarre”. Si tratta di persone con un background culturale diverso rispetto a quello italiano che hanno commesso dei crimini e, pertanto, devono scontare delle pene. Eppure, qual è il significato di queste pene? L’articolo 27 della Costituzione italiana e, in particolare, il terzo comma spiegano come la giustizia penale non sia fine a se stessa, limitandosi alla punizione, bensì punti alla rieducazione del detenuto. Come suggerisce il costituzionalista nonché presidente della Corte costituzionale Valerio Onida la detenzione deve essere un percorso “partecipato” in cui il singolo va guidato verso il ritorno alla legalità.

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Il carcere va quindi riscoperto nella sua dimensione umana: è un luogo i cui abitanti continuano ad essere persone «irripetibili e irrinunciabili», esseri umani. Nel carcere una parola può cambiare la vita. E così è stato per Leila, la protagonista del testo Leila della Tempesta del cappellano, e per il giovane studente di giurisprudenza Samad Bannaq. Quest'ultimo, grazie all’amicizia con l’allora accademico Pier Cesare Bori e con Ignazio De Francesco, ha abbandonato il mondo della criminalità e deciso di dedicarsi ad aiutare chi, come lui, viene in Italia da un altro Paese.

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Tuttavia, al giorno d’oggi si sente sempre più parlare di radicalizzazione tra i detenuti di religione musulmana all’interno degli istituti penitenziari. Perché questo? A tal fine, Samad Bannaq ha raccontato la sua esperienza. Chiusi tra quattro mura, trattati senza rispetto, molti giovani, più che colpevoli si sentono vittime di un sistema che non li vuole e non dà loro una speranza per il dopo. E se il futuro nel mondo degli uomini è negato, resta solo una cosa in cui rifugiarsi: Dio. Il ritorno religioso diventa così uno strumento di riscatto che, sotto l'influenza di alcuni elementi, diviene pericoloso.

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Dunque, la Basilica Palatina di Santa Barbara si è fatta custode di un messaggio importante: il carcere si deve considerare come un laboratorio culturale in cui investire sulle persone, soprattutto chi è straniero. Solo così si può contribuire attivamente alla costruzione di una società che possa propriamente definirsi “multiculturale”.

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