Tra fantastico e distopia
27 8 2016
Tra fantastico e distopia

O'Neill, Sansal, Volodine e i mille volti della paura

«Parlami dell'esistenza di mondi lontanissimi», cantava Battiato a metà degli anni Ottanta, sul limitare della Guerra Fredda e della terza rivoluzione industriale. Dopo lustri di incubi totalitari, conflitti e prodigiosi salti in avanti, questi mondi sembrano quantomai vicini, eppure l'umanità continua a proiettare le inquietudini del presente in perturbanti società possibili, lasciando che derivati più o meno nobili della letteratura distopica abbondino in notiziari, social network, videogiochi e serie televisive. Il prossimo Festival cerca di spingersi un po' oltre arretrando di posizione: invece di adeguarsi allo spettacolo della catastrofe che spopola nel giornalismo e nella cultura popolare prova a ridare voce ai romanzieri e allo spirito che ha reso classici della letteratura opere come Noi, 1984, Tutti a Zanzibar, Redenzione immorale, tuttora capaci di incidere più profondamente sul nostro immaginario rispetto all'ennesimo zombie movie.

Tra gli ospiti che interverranno a Mantova, diversi sono gli scrittori che di recente hanno dato prova d'essere degni eredi dei vari Zamjatin, Orwell, Brunner e Dick, a partire dalla giovane Louise O'Neill, autrice di Solo per sempre tua, che verrà intervistata a Festivaletteratura da Michela Murgia. A dispetto dell'etichetta "romanzo d'esordio", l'opera della O'Neill è straordinariamente matura, complice il fatto che la scrittrice irlandese – già collaboratrice del magazine Elle e giornalista freelance particolarmente ferrata in tema di sfilate e pop culture – sia riuscita a delineare una crudele parodia del mondo della moda e dell'estetica del corpo. Le protagoniste di Solo per sempre tua sono adolescenti create e indottrinate per diventare un giorno puri oggetti di piacere dei ragazzi: provano terrore per uno sfogo cutaneo o qualche grammo di troppo, vivono in scuole asettiche sotto il controllo di tiranniche vestali e hanno nomi scritti rigorosamente in minuscolo (freida, isabel, megan…), quasi a rimarcare la loro sub-umanità, il loro status di merce, mentre maiuscoli e imperativi sono i nomi dei farmaci, dei trattamenti cosmetici e dei regimi alimentari ai quali devono sottoporsi per prevalere in una gara di cinismo, tradimenti e competitività più torbida delle partite di Hunger Games.

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Se la dittatura del corpo-oggetto è la cifra del romanzo di Louise O'Neill, l'algerino Boualem Sansal, al Festival insieme a Marco Vanoli, dialoga invece con le pietre miliari della distopia del Novecento, riscrivendo (quasi) alla lettera la fiaba nera di 1984. Il suo 2084. La fine del mondo (Grand Prix du Roman de l'Académie française) è stato accompagnato sin dall'uscita da recensioni entusiastiche e critiche al vetriolo: queste ultime hanno tacciato l'opera di islamofobia, leggendola esclusivamente alla luce degli attentati che hanno dilaniato l'Europa e il mondo. Il virtuosismo romanzesco di Sansal, invero, riesce a trascendere le brutture dei nostri giorni, che pure riecheggiano prepotentemente nella narrazione, enfatizzando il mito zoppo dell'uomo in rivolta che già aveva segnato il classico di Orwell e che si è riaffermato, con vigore, in molti capolavori di Philip K. Dick. Nella teocrazia totalitaria dell'Abistan – partorita da una guerra santa globale che ha cancellato il mondo conosciuto e proclamato nelle rovine il verbo del profeta Abi – il linguaggio è contorto come i ferri piegati dalle bombe: il Big Brother orwelliano è ora uno schermo che trasmette litanie sanguinarie, istituzionalizza i pellegrinaggi, la corruzione e la lotta agli infedeli, esalta la morte come porta del paradiso. Il germe della ribellione contro l'ordine poliziesco e il connubio tra ideologia, religione e potere non può essere ancora una volta che l'individuo: così come la crisi esistenziale di Winston Smith inizia dalla stesura di un diario, quella del protagonista di 2084, Ati, servo zelante della teocrazia, si manifesta nel crescente desiderio di oltrepassare i confini (materiali e immateriali) dell'immenso stato-prigione, in un pellegrinaggio verso la riconquista della lingua e della storia prima dell'apocalisse.

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Dall’Abistan euroasiatico alle steppe di una Seconda Unione Sovietica il passo è infine breve grazie alla penna di Antoine Volodine, in dialogo con Marcello Fois a Palazzo Ducale. Volodine, classe 1950, è autore di oltre quaranta opere tra saggi e romanzi. Più che uno scrittore avulso da ogni classificazione è un abile narratore in grado di far tesoro del ricchissimo – e spesso bistrattato – bacino della narrativa fantascientifica. Dopo l'uscita della raccolta di racconti Angeli minori, in cui coesistono suggestioni letterarie di varia derivazione, in Italia è fresca di stampa la traduzione di Terminus radioso, romanzo che in Francia si è aggiudicato nel 2014 il prix Médicis. La vicenda di Terminus radioso prende forma all'interno di un kolchoz immerso in una landa allucinata e contaminata, con protagonisti fantomatici presidenti dai poteri sovrannaturali, nonne semi-immortali che soprassiedono allo smaltimento delle scorie radioattive e freaks di ogni genere. Se in questo caso sono più che mai ricorrenti i rimandi a Dick e ai fratelli Strugackij (geniali creatori di quel Picnic sul ciglio della strada da cui Andrej Tarkovskij trasse uno dei suoi film più ispirati), va altresì sottolineato che gli immaginari post-apocalittici ai quali l'opera si ispira stanno conoscendo una seconda vita anche nella narrativa italiana, soprattutto grazie all'apporto di scrittori come Tullio Avoledo, che proprio nel 2014 ha messo a segno un fantastico dittico di romanzi appartenenti al Metro 2033 Universe (Le radici del cielo e La crociata dei bambini) e che al Festival interverrà accanto a Piero Dorfles a ridosso dell'uscita del suo ultimo lavoro, Chiedi alla luce.

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