Grazia
Elvira Seminara
s., dall'italiano
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Quando la invochi si chiama miracolo, quando la esprimi vuol dire eleganza, quando fluisce e ti colma, si chiama stato di grazia. Si dice anche di un romanzo, se ti accende: scritto in stato di grazia. Ma la grazia in realtà non ha stato né paese, perché è in eterno movimento – è il tintinnio dell’aria, la pausa quando preghi, la musica degli astri. E a volerle dare una radice la situeresti in cielo, appunto. Ma la grazia non è radice, semmai corolla, emanazione.

Grazia è a pensarci una parola antica, di quelle che a pronunciarle cambi voce, come a dirle in corsivo (e un sorriso quasi vergognoso) – come fosse una citazione. È della stessa radura di parole ingiallite e tremanti, un po’ avvizzite, come letizia fulgore pudicizia aura verecondia.

Grazia è incanto e incantesimo, perché invisibile. La grazia traspare, non si impone, non grida ma palpita, non ha volume, trapela. Per questo è così difficile riconoscerla, vuole stupore e levità. Ovunque. Negli animali e nelle cose, nelle parole e nel creato. Non può restare a lungo, è un fremito. È l’ispirazione, per un artista, più che l’esito. Lampeggia.

«Tutto è Grazia», diceva il Curato di campagna di Bernanos, scrittore cattolico. Ma occorre uno sguardo capace di coglierla. Per i buddisti è rigore ed esercizio: Darshan è il premio, l’assoluta identità dell’io col tutto.

La pienezza dell’essere, ecco. Sentirsi in flagranza di creato. Per me è questa la grazia. E c’è dentro infatti la gratitudine. L’armonia. E il lavoro speso per raggiungere questa gratuità, che somiglia (lo dice anche Lutero) a un’elezione divina.

Grazia è la danza degli elementi, l’ordine-caos dei neutrini. E ha quel senso di bello di giusto e libertà che sconfina e oscilla in questo istante, come una stella cadente, nella parola che sto scrivendo: pace.



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