Anima, la tua patria è sempre stata il viaggio
9 9 2021
Anima, la tua patria è sempre stata il viaggio

Crocetti, Spadaro, Piccini: L’ultimo viaggio di Ulisse nel poema di Nikos Kazantzakis

«È buono il pane del viaggio». Così esclama Ulisse, l’eroe protagonista dell’Odissea di Nikos Kazantzakis, tradotta per la prima volta in Italia da Nicola Crocetti, ospite al Festival insieme ad Antonio Spadaro e Daniele Piccini. Tutti noi abbiamo presente l’Ulisse di Dante o quello di Joyce, per esempio, ma quello che fa lo scrittore greco è qualcosa di differente, è un vero e proprio corpo a corpo con l’epos omerico, un gareggiare con lui, sfidando la convenzione modernista dell’impossibilità di scrivere poesia.

«Omero ha figliato, ognuno di noi è un po’ Ulisse. Possiamo scegliere di essere l’Ulisse omerico o l’Ulisse di Dante, da cui viene quello di Kazantzakis», sentenzia a tal proposito Antonio Spadaro, che non poteva trovare termine migliore di “figliare” per indicare quel fascino un po’ competitivo che l’Ulisse di Omero suscita da secoli tra scrittori di ogni epoca e geografia.

Kazantzakis accoglie la sfida, creando un poema figlio di un lungo lavoro preparatorio sfociato in una composizione suddivisa in 24 canti per un totale di 33.333 versi, e che, nelle parole di Crocetti si configura come «un’arca di Noè linguistica». La lingua dell’Odissea attinge infatti anche al linguaggio popolare, alterna registri alti e bassi. All'interno del testo siano stati censiti ben 7.500 lemmi che non sono reperibili nei dizionari greci moderni. Kazantzakis per la sua opera ha infatti intrapreso un viaggio per le varie isole dell’Egeo alla ricerca di quel patrimonio linguistico di pescatori, contadini, gente umile che rischiava di andare perduto. Il viaggio dell’Odissea si fa quindi anche traghettamento della memoria verso il futuro. Questo aspetto, assieme alla decisione di mantenere nella traduzione italiana il decaeptasillabo, ovvero il verso di diciassette sillabe scelto dall’autore greco per la sua composizione, hanno rappresentato delle sfide affascinanti per Crocetti al momento della resa nella nostra lingua. Dopo sette anni di lungo lavoro in simbiosi intima con il testo greco, Crocetti in definitiva si è fatto anch’esso traghettatore di un’opera che, giocando fra tradizione e modernità, colma finalmente in Italia un vuoto e consegna ai posteri la memoria di un eroe inquieto ma mosso da grandi virtù.

L’Odissea di Kazantzakis è, infatti, opera intrisa di richiami filosofici e religiosi, da Nietzsche a Bergson passando per Francesco d’Assisi, è «figlia unigenita del Novecento» afferma Spadaro. In questi 33.333 versi lo scrittore greco realizza un immenso e ambizioso lavoro: immaginare cosa succede ad Ulisse una volta tornato a Itaca – quello che succede dopo il lieto fine – e raccontare un Ulisse figlio del suo tempo, del Novecento della complessità.

È Daniele Piccini ad immergere gli ascoltatori di Palazzo della Ragione nel testo, aprendo l’incontro con la lettura di un passo dal canto VI dell’Odissea di Kazantzakis. Qui Ulisse incontra la morte e insieme si addormentano. Nel sonno la morte è assalito (in greco la morte è maschile) da un tremendo incubo: la vita, i suoi giardini fioriti, il sole che sorge, la luna che illumina. La scelta di questi versi non è casuale e lascia subito intuire la cifra dell’opera: la tenacia della vita e la lotta dei suoi eroi contro l’impossibile. Agone di questa lotta è l’Ulisse di Kazantzakis, prototipo dell’uomo che lotta contro se stesso, che tenta sempre di andare oltre i limiti umani.

Spadaro sostiene che sia proprio in questo aspetto di inquietudine la differenza tra l’Ulisse omerico e quello di Kazantzakis. Per Omero Ulisse è l’eroe del nostos, del ritorno. Ogni peripezia non è altro che un rimandare il rientro. L’Ulisse del Novecento raccontato da Kazantzakis invece è l’eroe del viaggio e del vagabondaggio. Questo, infatti, non appena torna a Itaca e inizia ad interrogarsi, sente il bisogno di ripartire, capisce che la patria gli sta stretta: «la tua patria è sempre stata il viaggio» si legge nel poema. Viaggiare assume così la sfumatura romantica della scoperta, della fuga, dell’incapacità di rimanere entro i limiti, esattamente come ne era incapace l’Ulisse di Dante. Itaca diventa ormeggio e non più porto.

Se l’Ulisse di Omero era un «gingillo nelle mani degli dei», questo Ulisse novecentesco diventa il simbolo dell’uomo che prende in mano il suo destino e che soprattutto si fa «campione di giustizia». È questo aspetto ad essere rimasto maggiormente nel cuore del traduttore: la capacità di Ulisse di lottare per ciò che è giusto. Nel 1938, anno in cui Kazantzakis completa la stesura del volume, il mondo era pieno di ingiustizie e di guerre - nota Crocetti - ed è proprio da qui che sorge nello scrittore il bisogno di creare un eroe capace di sconfiggere tiranni, liberare schiavi e di fondare una città ideale animata da giustizia sociale e basata sui principi di Platone, sant’Agostino e Tommaso Moro. È tuttavia un eroe che sa di combattere una battaglia persa, ma che è consapevole e convinto che proprio «per questo dobbiamo combatterla». È il Don Chisciotte che litiga anche con Dio, che vive un’utopia e la sconta sulla sua pelle.

Ulisse a un certo punto incontra Cristo, che si presenta come pescatore e non si svela mai, ma è evidente che si tratti di lui. I due però si scontrano, Ulisse-Kazantzakis non crede nell’efficacia della lotta non violenta, sa che la vittoria non è assicurata né per Dio né per nessun altro. Dio è ovunque, è vero, ma è in pericolo, spetta a noi il dovere di liberarlo e questo può avvenire solo con la lotta. «Dio è un incendio e noi bruciamo con lui», fa dire Kazantzakis al Fra Leone di Francesco.

Vivere, viaggiare, con questa consapevolezza, con tale tensione e voglia di combattere non può che avere un epilogo: la morte. Perciò Crocetti non può non congedarsi che con la lettura degli ultimi versi dell’ultimo canto. Nel suo viaggiare verso il sud inesplorato, Ulisse approda in Antartide in una barca di ghiaccio e questo approdo è anche la fine del suo viaggio. È il «tempo del riso», il cuore di Ulisse è leggero, la vita e la morte un unico canto. La libertà, valore rincorso così a lungo, esce in volo e soffia propizia la carezza della morte. All’uscita qualcuno trova finalmente il coraggio di confessare all’amica «a me, sinceramente, Penelope non è mai piaciuta, secondo me non la raccontava giusta». E allora questo Ulisse mi sa che ci ha convinti.

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