Come un suq nel cervello
10 9 2020
Come un suq nel cervello

Come spalancare la mente senza uscire dall'appartamento

Mi sveglia la sveglia, proprio come ieri. Non è una cosa che mi capiti spessissimo, ultimamente. Potrei non aver dormito esattamente tutte le ore necessarie – ecco, questo capita già più spesso. Io e la Coinquilina facciamo colazione – io cereali, lei latte di noce, entrambe dei mirtilli – parlando di cene con delitto e altri argomenti piacevoli. Poi lei va via e io sono contenta.

L'inizio di oggi è un evento streaming: Stefano Ciccone che parla di mascolinità tossica. L'effetto, rispetto agli eventi di ieri, per me è un po' straniante, perché finora non avevo visto riprese di eventi live. Vedo i posti con distanziamento, il momento di imbarazzo di Cicconi che vorrebbe gli fossero poste delle domande e invece deve fare un monologo. La sua paura è infondata, appena inizia a parlare il coinvolgimento è tangibile. Le sue sono idee poco sentite in Italia negli ambienti mainstream: il suo tentativo di parlare di mascolinità tossica (peraltro senza, se non sbaglio, pronunciare queste due parole) e di porre la questione patriarcale come un problema collettivo, rivolgendosi innanzitutto agli uomini e ai ragazzi. Mi piace chi è pronto a fare polemiche di questo tipo, chi per il bene di tutti è pronto a rovinare la chiacchierata in spogliatoio dopo il calcetto o la birretta davanti alla partita con gli amici. Accendo la radio con rinnovata fiducia nell'umanità.

È una sensazione strana. Si può finire per passare da soli un'intera giornata senza essere stati soli neppure un secondo. Diventa una questione di ritmo, di gestione. Si lava la tazza dei cereali, la si ripone, si mettono le scarpe, si esce a comprare della frutta, si risalgono le scale stringendo il sacchetto con la mano sinistra, si infila la mano nella toppa; a un certo punto si mette su l'acqua, si mangia, si scarta la pastiglia della lavastoviglie. Poi si potrà languire un po' sul letto, in digestione, ripensando con un po' di senso di colpa ai teorici che hanno parlato di "fruizione nella distrazione". In altri momenti invece bisogna tenere le mani libere e allora è un tripudio di appunti, di tentativi di riscrivere esattamente questa o quella frase, di sottotitoli da leggere perché non si riesce a seguire quello specifico autore quando parla in inglese, di messaggi su Whatsapp agli amici per commentare un dettaglio, di ricerche, di titoli su Goodreads, di riflessione sdraiati a guardare il soffitto bianco oppure a occhi chiusi.

Intanto, nel proprio cervello si ritrova facilmente un rumorosissimo incrocio stradale.

O, molto meglio, una piazza. O un mercato pieno di gente. Ripenso ai libri che leggevo da piccola: ogni volta che una storia era ambientata anche solo parzialmente in un paese mediorientale era inevitabile che ci fosse il capitolo del mercato suq. Puntualmente i protagonisti si perdevano fra aromi e tappeti colorati; puntualmente qualcuno di loro si perdeva sul serio, e magari scopriva qualcosa di importante per la trama.

Io in questo suq trovo innanzitutto, coerentemente, altri Paesi. Mi sintonizzo su Panorama internazionale troppo tardi per il Marocco di Fouad Laroui , ma giusto in tempo per la Finlandia di Rosa Liksom, delle sue donne senza nome e del suo coraggio nel raprire il trauma del nazismo finlandese. Poi, come ieri, l'appuntamento di Radio Tunisi (condotto da Luca Scarlini). Ascolto Aymen Daboussi, Mohamed Harmel, Mohamed Kerrou, Sami Mokaddem, Shukri al -Mabkhout. Da ognuno imparo qualcosa di importante.

Anche stavolta suggestioni, lettura di brani, musica. Più di ieri, la Storia: la "nuova cittadinanza" (cittadinanza verticale? cittadinanza orizzontale?), la "gerarchia amministrata", la "anarchia amministrativa": espressioni complesse ma che si semplificano mano a mano con l'ascolto. Seguo la serena logica dei ragionamenti veritieri, puliti.

Ma poi torno allo streaming, perché mi interessa l'apprendimento, e quando l'apprendimento c'entra col linguaggio mi interessa ancora di più. Mi riferisco a Cervello umano: 1 – Computer: 0 , l'intervista di Davide Crepaldi al neuroscenziato Stanislas Dehaene. Seguirli è come tornare a uno dei momenti fondanti della vita di ognuno di noi: il momento in cui, a sei anni o giù di lì, si impara a leggere e scrivere. Tornarci sì, ma non come bambini, piuttosto come spiritelli in fondo all'aula o spie in incognito. Spiritelli molto razionali, però, spiritelli della scienza che si pongono domande. Perché per tanti bambini è così difficile distinguere la p dalla q? È possibile insegnare a leggere a un babbuino? Leggere il Braille è – a livello neurologico – diverso dal leggere qualsiasi altro alfabeto? Rimango colpita quando scopro la concorrenza, a livello di aree cerebrali, fra la capacità di leggere e quella di riconoscere i volti. Io ho iniziato presto a leggere e, se i miei migliori amici hanno addosso la mascherina, rischio di non riconoscerli. Prima del quarto incontro non riconosco proprio nessuno. È stato qui che più mi è mancata la possibilità di alzare la manina e fare una domanda, chiedere se le due cose siano collegate. Chissà se il professor Dehaene ha Twitter?

E allora non desisto quando mi sembra che le voci, gli argomenti, i commenti del festival si accavallino, quando il suq diventa assordante. Rifletto su com'è stato gli scorsi anni: anche allora un intersecarsi di linguaggi, perché era naturale ascoltare l'autore e l'intervistatore che stavano parlando, e insieme volgersi a guardare l'espressione dell'amico, e poi guardarsi intorno e vedere l'ambientazione.

Quest'anno, quando ho cominciato a seguire il Festival, mi sentivo pronta ad ascoltare, guardare, leggere per dodici ore al giorno consecutive. Il primo giorno l'ho quasi fatto. Dopotutto, a Mantova si è sempre fatto così, no? Ma forse quello che mette ordine nell'infinità di stimoli di un festival svolto tradizionalmente sono le camminate per raggiungere una tenda o l'altra, un teatro o una sala eventi. I tempi morti come tempi fertili, azzarderei. La camminata sdipana tutto e mette ordine.

Così, con dispiacere unito a fermezza, comincio a fare pause. Ad ascoltare un po' il silenzio e un po' i miei pensieri, masticare invece che ingollare. Scopro la libertà insolita di ascoltare in differita, di prendermi del tempo per esplorare le installazioni web. Di prendermi i miei tempi.

Così, con calma, in silenzio, mi metto a spulciare Scienceground, l'installazione web sugli Ecosistemi. Mi colpisce subito l'elemento acquatico. A leggere a lungo di questo progetto si diventa un pochino anfibi. Ricordo bene il Mincio da quando l'ho visto, due anni fa: e ora mi trovo a contemplare un Mincio mentale, un Mincio virtuale, e a seguire informazioni che si biforcano, che da torrenti prendono corpo e diventano fiumi, che si reincrociano come affluenti. Leggo le liste di letture consigliate: accidenti, ora come faccio? Sono in ritardo per questa conversazione, da quando è iniziata? Non ho letto neppure uno di quei libri. Beh, me li segno; avrò tempo e avrò modo in futuro... E per fortuna il sito rassicura: niente scadenze fisse, nessun obbligo. Ripenso ai diritti del lettore di Pennac, al verbo leggere che non sopporta l'imperativo, e subito mi sento sollevata. Apro Google Maps e risalgo il corso dei fiumi.

Accendo ancora la radio. Si parla della lingua maltese, la contaminazione fra le aree linguistiche. E di altra acqua. Non capisco: è già Due Punti ? No, era l'evento precedente, Unopuntoseiperiodico. Me lo sono perso quasi tutto, peccato, l'ultimo pezzo è stato molto interessante. Però potrò riascoltarlo dopo in streaming, con calma.

Ed ecco comincia Due Punti, uno degli appuntamenti che aspettavo di più. Silvia Righi intervista due poeti contemporanei, entrambi sotto i trent'anni. Non ho mai letto nulla dei loro versi, ma ora ho molta voglia di recuperare. Ocean Voung mi conquista con la sua sensibilità dolente, il suo vivere consapevolmente le sue origini vietnamite, la sua riflessione sul ruolo costitutivo della guerra nella storia umana e nella poesia, i suoi ragionamenti sullo sguardo e sulla musica. Simone Burratti recita i suoi lunghi versi che mi ipnotizzano e mi lasciano la voglia di rileggerlo su carta; e mi riporta vicina a casa con le sue idee che tentano di dirimere il dibattito eterno fra high brow e low brow. Dice poi di aver fatto dei Razzie Awards poetici 2019-2020: vado a guardare su YouTube e mi accorgo di condividere i suoi gusti e disgusti.

La puntata di Cabaret Letterario non è quella che mi aspetto. Non solo nel senso che è sorprendente: nel senso che proprio non è quella. Mi aspettavo la prima puntata, con argomento la città di Siracusa; e invece è – mi accorgo subito, e confermo in pochi clic – la seconda, quella che riguarda il tema della famiglia. L'inconveniente non mi infastidisce. Mi torna in mente la frase di Cohen (che anche io, come molti, erroneamente attribuivo a Hemingway; qualche clic è stato sufficiente a correggermi): «There is a crack, a crack in everthing; that's how the light gets in». È una di quelle cose a cui bisognerebbe sempre pensare quando si discute di tecnologico e analogico. Con la tecnologia in mano siamo sempre umani, solo che sbagliamo (rendiamo più complesso, rendiamo caleidoscopico) in modo differente.

Il Cabaret letterario mi coinvolge concettualmente prima ancora che nei fatti. Se c'è uno stereotipo che mi piace meno di quello dell'umanista introverso, ecco, è quello del lettore sempre serio se non triste. Se la letteratura è capace di cogliere tutte le emozioni umane, non capisco perché il riso dovrebbe fare eccezione. Ascolto quindi Simonetta Bitasi e Angelo Orlando Meloni che tormentano prima Erica Barbiani e poi Andrea Serra. Il rituale è lo stesso. Si apre con la lettura di un brano di un altro autore, a scelta di Barbiani e di Serra, purché li faccia ridere e li abbia influenzati in qualche modo. Si chiude con il test «Che autore da presentazione sei?», le risposte (A? B? C? D?) e con la lettura dell'esilarante profilo corrispondente. Quali siano i profili dei due autori, naturalmente, non sarò io a dirvelo: trovate la puntata sul sito, come tutte le altre.

È ora di cena e io ascolto Judith Butler, intevistata da Maura Gancitano. È bello chiudere questa giornata con una conferenza legata al genere: proprio come l'avevo iniziata. Eppure, prima che di genere, Butler sta parlando di nonviolenza.

La Coinquilina è tornata dal lavoro, ha salutato ed è uscita a bere uno spritz non so con chi. Io sto mangiando una piadina e mi sento la testa piena di voci, idee, spunti, cose da dire appena avrò qualcuno sotto tiro e mi sento più aperta al mondo, più curiosa e più desiderosa di leggere che mai. E mi sento contenta.

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