Massimo Montanari e Anna Prandoni su Amaro. Un gusto italiano
Come il fiele, come il veleno, ma anche come il radicchio e come i carciofi. «L’amaro è un gusto adulto, un gusto difficile», dice lo storico dell’alimentazione Massimo Montanari in dialogo con Anna Prandoni, direttrice di Gastronomika. «Ci sono circa dieci recettori del dolce, mentre sono più o meno quattrocento quelli per riconoscere l’amaro. Questo perché esistono tanti amari diversi: c’è quello buono e quello che ti uccide». L’amaro è un gusto adulto perché richiede pratica: nel corso dei secoli, il nostro palato ha iniziato ad abituarsi e noi abbiamo iniziato ad apprezzarlo.
Montanari, nel presentare Amaro. Un gusto italiano (Laterza, 2023), vuole subito specificare il senso del sottotitolo. Il suo amaro, intanto, non è da considerarsi come gusto fisiologico, bensì un gusto culturale, che si percepisce a livello cerebrale. Ancora più enfasi è data all’italianità, un aspetto che trascende i confini politici e quelli temporali per farsi più complesso.
«Le erbe», spiega Montanari, «sia quelle selvatiche che quelle domestiche, sono i prodotti che forniscono l’amaro. E le erbe provengono dalla cultura contadina». L’origine popolare, tuttavia, non ha impedito la contaminazione della cucina delle classi più agiate. Secondo lo storico, infatti, fin dai primi ricettari del 1300, possiamo notare come a differenza dei volumi delle altre culture europee, quelli italiani avessero al loro interno un genere alimentare che negli altri era presente in maniera minore: le verdure. È attraverso questo scambio tra classi che si è sviluppata la cucina italiana, secondo Montanari, da considerare la più varia del mondo.
La discussione poi, come spesso accade parlando di cibo, tende a divagare, e l’amaro in bocca lascia il passo ad argomenti di più ampio respiro. Come per esempio: oggi mangiamo peggio di prima? A questa domanda di Prandoni, Montanari risponde riprendendo i concetti espressi proprio dalla giornalista in occasione dell’evento “Cinque sensi (più uno) per mangiare” in compagnia di Stefano Scansani. «Cosa significa peggio? Cosa significa prima?». Quando i confini della discussione si allargano, diventa difficile fornire risposte chiare e perentorie. Ecco che fioccano i “dipende”, i “non lo so”, figli delle zone grigie e dei compromessi che nella società contemporanea dobbiamo essere capaci di trovare. Analizzare i vari contesti richiede impegno e riuscire a mantenere la complessità delle cose è un nostro dovere. «Mangiare è un verbo transitivo che implica un mangiato e un mangiante», afferma Montanari. Quando fotografiamo un piatto, spesso eliminiamo una delle due componenti. Eppure cuciniamo per mangiare, per nutrirci, perché ne abbiamo bisogno. Nella banalità, fa sempre comodo non dimenticarlo mai.