Dall'essere all'epigramma
12 7 2016
Dall'essere all'epigramma

L'omaggio di Daniele Piccini all'opera poetica di Bonnefoy e Zeichen

La recente scomparsa di Yves Bonnefoy e Valentino Zeichen ha lasciato un vuoto nella poesia europea contemporanea. Entrambi furono protagonisti di due memorabili interventi al Festival: il primo nel 2007 insieme a Fabio Scotto; il secondo nel 2011 in compagnia del poeta e critico letterario Daniele Piccini, che li ricorda in questo bellissimo omaggio scritto per il nostro sito.

DALL'ESSERE ALL'EPIGRAMMA, LA POESIA DI BONNEFOY e ZEICHEN [di Daniele Piccini]

Si direbbe che Yves Bonnefoy abbia per tutta la sua vita interrogato l’enigma della presenza. La sua è una poesia che cerca le sostanze elementari, la luce, il vento, il giorno, la notte, ma che altrettanto profondamente si interroga sulla loro consistenza, intrisa di mistero. La parola non rinuncia, si espone alla nominazione e alla transitorietà, che la imbeve di sé, con risonanze inquiete e sussurranti. La carriera di Bonnefoy è stata lunga e ricca. Nato a Tours nel 1923, ha compiuto studi matematici e filosofici. Ha attraversato in gioventù il movimento surrealista, di cui ha poi continuato a far tesoro. Da Movimento e immobilità di Douve (1953) fino a L’ora presente (2011), la sua parola ha perseguito una sorta di illimpidimento e insieme di condensazione. La riflessione sul linguaggio e sulla scrittura (il «linguaggio, nero» di cui parla Nell’insidia della soglia, 1975) si risolve sempre più intimamente nelle occasioni della scrittura stessa, nella evocazione dei momenti, degli episodi di un sospeso divenire. La presenza dell’ora, del giorno, della voce, la loro dissolvenza: è quanto occupa con una semplicità carica di echi la parola matura di Bonnefoy, scomparso il 1 luglio 2016 a Parigi. In L’ora presente l’occasione può derivare da una vecchia fotografia, divenuta, per il tempo che vi ha depositato le sue ombre, illeggibile o, meglio, irriducibile, sottratta alla sua piccola contingenza, come un rebus calato nella vicenda dell’essere: «[…] / Deve essere estate, e un giardino / In cui cinque o sei persone sono riunite. // Ed era quando, e dove, e dopo cosa? / Questi, chi furono, gli uni per gli altri? / E poi, se ne preoccupavano? Indifferenti / Come già la loro morte chiedeva loro d’essere. // Ma questo, che guarda quest’altro, / Pur se intimorito! Strano fiore / Questo frammento di fotografia! // L’essere cresce a caso nelle vie. Un’erba povera / Che lotta tra le facciate e il marciapiede. / E questi rari passanti, già delle ombre». Il tema della presenza è ripreso nel poemetto che intitola il libro, L’ora presente, dove è in conclusione un invito accorato: «Ora presente, non rinunciare, / Riprendi i tuoi vocaboli dalle mani erranti della folgore, / Ascoltali fare del nulla parola». Un invito alla nominazione, al faticoso privilegio della parola poetica. Bonnefoy è stato un lettore raffinato della luce e della prospettiva pittorica, innamorato in particolare della rarefazione intellettuale di Piero della Francesca. La sua poesia è forse un tentativo di cogliere ogni scena e ogni attimo del mondo come inscritti nella luce di una rivelazione per quanto sospesa, incerta, tormentosa.

Quanto Bonnefoy è stato poeta dell’essere, della pura essenza del linguaggio, tanto Valentino Zeichen ha puntato sull’estro aneddotico e sull’epigramma. Inserire Zeichen nelle genealogie poetiche del nostro Novecento è arduo. Il suo profilo non vi si attaglia, pretende un luogo originale, uno spazio autonomo. Fin dai suoi primi libri, Area di rigore, 1974, e Ricreazione, 1979, il poeta esibisce una scrittura cerebrale, che contamina i linguaggi e cerca l’arguzia, il fulmen epigrammatico. I libri successivi (Pagine di gloria, 1983; Museo interiore, 1987; Gibilterra, 1991; Metafisica tascabile, 1997) si nutrono anche di un certo secentismo, di un gusto concettoso, che si riassume infine in un sorridente gioco di prestigio, in bravura linguistica e metaforica. La funzione epigrammatica (proprio Neomarziale si intitola il libro del 2006) include anche la possibilità di trasformare la poesia in un’occasione di pettegolezzo, di chiacchiera divertita, di satira sociale, che può eventualmente incentrarsi sul mondo romano delle lettere. Zeichen, che era nato a Fiume nel 1938 e che a Roma arrivò nel 1950 da esule istriano, fece infatti della Capitale il suo luogo d’elezione (si veda la raccolta Ogni cosa a ogni cosa ha detto addio, 2000), vivendo sempre, per altro, da irregolare. E a Roma il poeta è scomparso il 5 luglio 2016, per le conseguenze di un ictus. Dotato di un carattere corrosivo, istrionico, il poeta ha sempre giocato, da questa sua posizione di 'povero nella città', un ruolo letterario codificato: la sua retorica è ferrea e funziona soprattutto in funzione dissacrante e parodistica. E tuttavia, Zeichen non è stato soltanto questo. Giocava a nascondersi, ma l’ulcera della nostalgia era una delle fonti della sua poesia, quando rivelava la sua porzione meno mentale, meno protetta.

(caricamento...)

Qualche anno fa Zeichen fu ospite al Festivaletteratura di Mantova. Ricordo che fece di tutto per evitare la composta liturgia della lettura poetica, per mandare a monte ogni discorso critico. Ma dovette, almeno per un momento, desistere. Fu quando lessi per sollecitarlo A Evelina, mia madre, da Metafisica tascabile: «Dove saranno finiti / la veduta marina, / il secchiello e la paletta, / e i granelli di sabbia / che l’istantaneo prodigio / tramutò in attimi fuggenti, / travasandoli dal nulla / in un altro nulla? / Dove sarà finito l’ovale / di mia madre / che fu il suo volto e / che il tempo ha reso medaglia? / Perché non mi sfiora più / con le sue labbra, / dove sarà volato quel soffio / che raffreddava la / mia minestrina? / Dove le impronte di quel / lesto e disordinato / sparire delle cose? / In quale prigione di numeri / è rinchiuso il tempo? / Rispondimi! Dolore sapiente, / autorità senza voce».

Festivaletteratura