L'unica verità è rivoluzionaria ancora oggi? Una riflessione fondamentale, con Sorj Chalandon, Lorenzo Tondo e Gigi Riva.
«Soprattutto non mi interessa la Poesia:
Il mio tema è la guerra, e la pietà della guerra.
La poesia è in questa pietà. […]»
Tutto ciò che un poeta può fare oggi è ammonire
Ecco perché i veri poeti devono dire la verità»
Wilfred Owen (1893-1918), soldato e poeta, mette su carta queste parole prima di morire – parole che volevano essere una prefazione alla sua raccolta di liriche e invece si fanno epitaffio, si scolpiscono sulla pietra. Diventano monumento per chi viene dopo di lui.
Owen è una delle voci fondamentali della I Guerra Mondiale. Le voci delle bombe, il silenzio della gioventù che va a morire, il terrore delle trincee. Ha poco più di 20 anni quando l’esperienza della guerra entra nella sua vita, ma forse proprio perché non riesce a capire le ragioni del dolore che gli sta intorno – e forse perché in quei casi le ragioni non importano davvero – comprende invece che la cosa fondamentale è trasmettere, per quanto possibile con occhio lucido, quello che vede. La verità.
Il reporter di guerra esiste da sempre ed Owen con la sua voce lirica entra a pieno titolo nella lunga serie di nomi che nel corso della storia hanno cercato di svolgere questo compito difficile. Ma ciò che sembra estremamente netto e semplice nelle parole di Owen è un tema complesso perché, soprattutto oggi, con 56 conflitti in atto (il più alto numero mai registrato dalla fine della II Guerra Mondiale) scrivere una cosa piuttosto che un’altra significa vita, o morte.
Esiste una verità? O meglio, esiste ancora? Nell’era della post-verità, un tempo in cui per il pubblico smette di essere importante la rendicontazione dei fatti e si cercano notizie da considerarsi vere sulla base delle emozioni che provocano, la domanda è difficile. Si può essere imparziali? Qual è il limite che pongono questi tempi frenetici, la fretta di sapere e l’illusione che, davvero, leggendo 4 righe su un social network ci si possa considerare assolti dalla colpa incosciente del disinteresse?
Non è un compito semplice discutere di questi temi e lo sanno bene coloro che questo lavoro l’hanno fatto per una vita, come Sorj Chalandon (ex-reporter di guerra di Liberation, scrittore), tanto quanto chi spera vivamente che ancor oggi ne valga la pena, come Lorenzo Tondo (inviato di guerra per il Guardian e scrittore) che oggi dialogano e si interrogano insieme a Gigi Riva (giornalista, ex inviato di guerra e romanziere).
Il mondo è cambiato ed è diventato troppo veloce per Chalandon, che tra i molti motivi per i quali ha lasciato questo lavoro adduce proprio l’eccessiva rapidità. Non viene più dato il tempo di capire, di osservare, di ascoltare – forse nessuna delle due parti, quindi certamente non entrambe. Mentre è questo primo fattore ad essere fondamentale per l’ex reporter. Bisogna raccontare da vicino e «se non conosci la paura degli uni, non conoscerai la paura degli altri».
A farne le spese è il lettore della notizia. Non è però solo il tempo l’elemento problematico dell’equazione. C’è anche il fatto che per raccontare da vicino bisogna essere presenti sul campo e spesso questo non è possibile, perché l’accessibilità al fronte per la stampa è sempre più ridotta. Da un lato, perché il potere dell’informazione è chiarissimo anche ai molti che dalla guerra traggono profitto, e quindi la censura, così come la propaganda, diventano lo strumento essenziale per una dittatura del non sapere; dall’altro perché mandare un reporter sul campo costa, e ogni giornale sceglie da che parte della spesa vuole stare.
E ancora, anche quando l’accessibilità viene raggiunta, c’è il fatto che ciò che vedi, quello che ti si svolge davanti agli occhi, non viene creduto. Come succede a Tondo davanti al massacro di Buča. Davanti ai suoi occhi c’è una fossa comune, nella fossa comune c’è una bambina, avvolta in un lenzuolo bagnato che aderisce al suo corpo tanto che, attraverso, Tondo ne scorge i caratteri. In quel momento, quando la domanda che più attanaglia il reporter è come si faccia a non farsi prendere il cuore, come si faccia a rimanere imparziali, che cosa in fondo voglia dire la parola imparzialità, come si faccia a non vedere in quella bambina una sorella, una figlia – in quel momento dall’Italia arrivano le prime smentite del massacro, arriva chi dice che no, quello che Tondo ha davanti agli occhi non è successo davvero. E il pubblico ci crede, perché piace così.
La guerra più duratura diventa quindi quella tra chi fa censura e chi cerca di smascherarla, ma è una guerra fatta di strategia, di strumenti di sottilissima precisione. Tondo, che vorrebbe poter raccontare, citando Ernie Pyle, «se non in maniera obiettiva, almeno tutto quello che vede e sente», si ritrova quindi a dover fare giornalismo d’inchiesta per smontare la disinformazione. Servono le prove, come in un’indagine di cui si stia cercando il colpevole, servono i testimoni, servono foto abbastanza chiare, e poi non bastano nemmeno quelle.
C’è la speranza allora? Vale la pena continuare, chiede Riva? La risposta di Chalandon è indubbiamente sì, «anche se i primi a essere fucilati saranno sicuramente i giornalisti, in secondo posto gli avvocati e poi i professori». La speranza è che il castello di carte cada, che l’amore per la verità – comunque la si voglia intendere – e il rispetto per il pubblico resti sempre protagonista. Continuando a credere e lavorando, con le parole di Owen, «anche con verità troppo profonde per essere contaminate».