Diaspore e ritorni nella catastrofe bosniaca
10 9 2022
Diaspore e ritorni nella catastrofe bosniaca

La narrazione a due volti di Aleksandar Hemon

È un libro a due facce quello che lo scrittore Aleksandar Hemon, originario di Sarajevo ma trapiantato negli Stati Uniti dallo scoppio della guerra in Bosnia nel 1992, presenta ritornando a Festivaletteratura a otto anni dalla sua precedente partecipazione. Lo è letteralmente, dal momento che si può leggere dai due lati, corredati da due diverse copertine. Si tratta, a tutti gli effetti, di due libri in uno. Il primo, I miei genitori, ripercorre la storia della vita di suo padre e sua madre nella Bosnia allora parte della Jugoslavia titoista, sino a quando il divampare del conflitto non li spinse all’emigrazione in Canada. Il secondo, Tutto questo non ti appartiene, raccoglie decine di brevissimi racconti – germogli scaturiti alla sua memoria attraverso le crepe della scrittura del primo volume, soggiunge Hemon – della sua infanzia a Sarajevo.

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Nella suggestiva cornice di Piazza Castello, la conversazione tra Hemon e la scrittrice Federica Manzon offre all’autore bosniaco l'opportunità per affrontare discorsi penetranti ed emozionali, che legano tra loro l’amore per i familiari, i risvolti luminosi e quelli oscuri delle radici, la diaspora e lo scrivere in una lingua differente dalla propria lingua madre.

Amore e rispetto sono infatti categorie essenziali per comprendere la genesi de I miei genitori, ispirato all’autore dalla crisi migratoria del 2015 e in specifico dalla narrazione che faceva di ogni migrante il tassello di una massa, senza volto e senza individualità, senza la pienezza di una vita passata o la luce di un sistema di valori personale.

Il racconto de I miei genitori sfocia con naturalezza nella vicenda della madre di Hemon, che – nata in una casa con un pavimento di terra battuta e trovatasi poi a poter studiare e ad accedere alla classe media – identificava proprio in quelle opportunità offerte dalla Jugoslavia di Tito una parte della sua identità, compromessa poi dalla fuga. L’identità personale è complessa, stratificata, radicata nel collettivo di persone che si conoscono, con cui si condivide la vita quotidiana: tanto che, dopo aver lasciato Sarajevo per necessità, Hemon ha sperimentato sino in fondo quanto la comunità di cui aveva fatto parte, e che d’un tratto si faceva per sempre inaccessibile, lo avesse definito. I ricordi di un tempo, al di qua del trauma, mantengono intatto il loro valore solo se condivisi anche da altre persone, scivolando altrimenti in un’irrealtà che attenua il confine fra memoria e invenzione.

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La privazione delle radici è peraltro esperienza non individuale ma collettiva, poiché un quarto della popolazione che abitava in Bosnia prima della guerra vive ormai all’estero. È comune ai bosniaci rimasti in patria avere amici e familiari nella diaspora; è comune ai bosniaci della diaspora avere amici e familiari in Bosnia. Pur non essendosi distaccato dal bosniaco, come molti bosniaci della diaspora Hemon ha adottato una lingua differente come lingua principale di scrittura. D’altra parte, dalla fine del secolo scorso numerosi autori scrivono ormai in lingue diverse da quelle di nascita: il che, nota Hemon, scardina l’idea ottocentesca e al fondo nazionalistica della “letteratura nazionale”, praticata a compartimenti stagni in ciascuno Stato-nazione in assenza di stranieri.

Una constatazione che spinge Hemon verso il terreno della politica, dove l’autore commenta con ironia velata da una punta di amarezza il proprio passaggio da una terra, la Bosnia, in cui lungo la strada era normale picchiare per primo per non subire le botte, ad un’altra, gli Stati Uniti, che ancora lega la propria concezione di libertà alla violenza tramite l’accesso generalizzato al possesso di armi.

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Festivaletteratura