Epos di frontiera
7 9 2019
Epos di frontiera

Valeria Luiselli custode delle storie altrui

La narrativa on the road può essere concepita solo negli spazi americani, esordisce Michela Murgia.

Valeria Luiselli mette in moto la sua auto a New York per arrivare in Arizona e tracciare l’itinerario del suo Archivio dei bambini perduti, forse non a caso il suo primo romanzo scritto in inglese.

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Tanto Murgia quanto Luiselli sentono la necessità di definire la differenza tra confine, un luogo che limita due territori pur sempre in continuità, e la frontiera, cioè una netta demarcazione del mondo civile rispetto alla barbarie. Negli spazi del New Mexico e dell’Arizona si consuma, con le rievocazioni storiche che di storico hanno ben poco, il mito americano della frontiera, un mito che al posto di cowboy e sceriffi vede border patrol e centri di detenzione privati che lucrano in base al numero dei migranti imprigionati. L’autrice, interessata a questi luoghi anche per loro legame con l’ufologia, si scontra con tutta l’incongruenza di un meccanismo sociale che usa gli stessi droni e tecnologie per rilevare attività paranormali e catturare chi cerca di attraversare la frontiera.

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Come in tutti i viaggi c’è sempre una linea di partenza. Qui si parla di una famiglia newyorkese, i cui componenti rimangono sempre anonimi e si definiscono attraverso i propri ruoli, la lingua, la mitologia fondante del loro nucleo familiare.

Sia il marito che moglie sono documentaristi di paesaggi sonori e per lavoro si avventurano in un viaggio dalla destinazione comune, le cui finalità e linee di ricerca sono molto diverse. Il marito vuole recuperare le storie degli Apache, «l’ultimo popolo libero d’America, l’ultimo ad arrendersi», mentre la moglie si propone di raccogliere le esperienze dei bambini che attraversano la frontiera da soli.

La scelta dell’anonimato dei personaggi è essenziale nel romanzo, in un’ottica secondo cui «le cose sono come le chiami, non come le vedi». Quando una persona attraversa il confine, infatti, tutti i suoi nomi cambiano e non di rado perdono ogni connotato umano. Luiselli, sia come scrittrice che come interprete per rifugiati nei tribunali newyorkesi, presta particolare attenzione a questo slittamento semantico, a come la violenza sia perpetrata attraverso il linguaggio. Ricorda al pubblico di come le istituzioni burocratiche si avvalgano con estrema facilità di eufemismi per rinominare atti di violenza definendo, per esempio, i nativi americani relocated, dove relocation suona più come deportation e li condanna ad anni, decenni di povertà nelle riserve inospitali. Denuncia, al tempo stesso, ogni atto e parola di disumanizzazione, confrontando l’italiano clandestino all’inglese alien, talmente diffuso da affollare indifferentemente i mass media americani.

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Dopo essersi occupata a lungo di una scrittura che ammicca alla non fiction, per Archivio dei bambini perduti Luiselli si rivolge alla narrativa e alla tradizione della grande letteratura. Questo cambio di direzione è indispensabile per lavorare con strumenti letterari in grado di delineare le storie di sette bambini migranti senza incagliarsi nella loro vittimizzazione o disumanizzazione. Perché infatti accostare i loro viaggi solitari e tortuosi ad un’emergenza o un disastro naturale quando il loro cammino ha più i contorni di un’Odissea contemporanea? Al contrario, la scrittura di Luiselli è ricca, melodica, matura, frutto di più mondi e lingue elaborate nel corso del tempo. È altamente poetica e si pone in accordo con l’andamento del viaggio e la vita dei personaggi, cartografi di geografie sonore e custodi di mondi fragili e scomparsi.

È proprio questa l’ambizione di Luiselli: comporre un epos capace di raccontare in maniera intelligente e sottile le loro storie e, al tempo stesso, creare uno spazio per coloro che queste migrazioni le hanno vissute in prima persona, coloro che troveranno in futuro un solco in cui inserirsi e scrivere con le proprie parole. Luiselli invita a farsi custodi del linguaggio, sempre pronti a reagire e a sottolineare che è proprio la lingua il nodo che tutti unisce.

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