Finanza fa rima con disuguaglianza?
12 9 2021
Finanza fa rima con disuguaglianza?

La lezione di Anna Soci è una bussola per capire cause ed effetti dell’economia contemporanea

Anna Soci, docente di Economia Politica all’Università di Bologna, guida il pubblico del Festival alla scoperta del mondo della finanza e del suo possibile legame con la disuguaglianza. Difficile concentrare in un’ora i momenti salienti della storia finanziaria recente, che, volenti o nolenti, riguarda tutti, viste le ricadute che certe tendenze eticamente discutibili hanno avuto sull’economia reale e quindi sulla vita di tutti noi. Anna Soci ci riesce egregiamente: le basta una lavagna, un piglio da professoressa appassionata e il pubblico sembra rapito. Di sicuro è concentrato, vista la difficoltà dell’argomento.

Nei grandi dizionari non esiste una definizione di disuguaglianza, perché questa si definisce a partire dall’uguaglianza, cioè come il suo contrario. «La disuguaglianza economica è la madre di quasi tutte le disuguaglianze e provoca disparità economiche nella distribuzione del reddito e della ricchezza», afferma Soci. Tralasciando i motivi morali, è importante occuparsi di disuguaglianza per tre ragioni: in primis perché fa male all’economia e alla crescita. Poi perché ha terribili ricadute sociali, come testimonia drammaticamente l’ultimo lavoro del premio Nobel per l’economia Angus Deaton e della studiosa Anne Case Morti per disperazione e il futuro del capitalismo, sul disagio estremo in cui versa la classe media bianca americana. E, infine – ed è il motivo più importante – per il suo legame intrinseco con la politica e la democrazia, che rischiano di sfilacciarsi, come già ammonivano Aristotele e Tocqueville. «I ricchi hanno comprato la politica attraverso una costante e pressante attività di lobbying per far sì che tutelasse i loro interessi», scrive Deaton. E ha ragione. Le derive più recenti della politica occidentale partono da qui: chi non si sente rappresentato, si orienta verso nuovi partiti.

Soci passa al concetto di finanza e parte da una premessa necessaria: «La finanza è un soggetto nobile e non rinunciabile, dal momento che operiamo dentro un’economia monetaria. Senza finanza non c’è economia». Disegna uno schema circolare che ci aiuta a seguire: l’economia è composta dal settore pubblico, da quello privato e dal resto del mondo. I tre settori formano la variabile “S”, che sta per “risparmio”. Questo viene assorbito dai mercati finanziari, i quali a loro volta finanziano i tre ambiti economici, trasferendolo dai settori in avanzo a quelli in disavanzo.

I mercati finanziari hanno tre caratteristiche: devono essere dinamici, quindi anche essere instabili, visto che l’instabilità è connaturata al capitalismo. Devono essere trasparenti, perché nascono per dare liquidità ai tre settori che compongono l’economia. Devono essere presenti dei controlli che vigilino su di essi e sulla velocità dei flussi di denaro.

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La vera frattura all’interno di questo circolo virtuoso avviene negli anni Settanta: con le prime crisi petrolifere si rompe il paradigma teorico keynesiano formulato negli anni Trenta. Per Keynes lo Stato è fondamentale nel gestire la domanda e il settore pubblico è il motore dell’economia, ma lo studioso non prende in considerazione le imprese. Il limite di questa teoria porta al diffondersi del pensiero pre-keynesiano, a favore di un intervento solo parziale dello Stato e di una maggior concentrazione sull’aumento dell’offerta.

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Sono gli anni del Neoliberismo promosso da Thatcher e Reagan, che dà il via, in particolare negli Stati Uniti, alla deregulation o deregolamentazione. Questa provoca, a sua volta, lo smantellamento del welfare, una maggiore attenzione alle imprese, il ritorno del laissez faire, la defiscalizzazione e il diffondersi del trickle-down (letteralmente “il tracimare dall’alto verso il basso”), una pratica che consiste nell’aiutare i ceti sociali alti, siano essi imprese o individui, nella convinzione che la loro sapienza in materia economica generi beneficio anche tra le classi sociali più basse. Un principio rivelatosi totalmente falso.

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La deregulation sui mercati finanziari ha portato, a sua volta, a tre conseguenze: ha aumentato l’attività dei settori istituzionali, come banche, fondi e assicurazioni; ha ampliato l’attività e la platea degli intermediari finanziari, che si sono moltiplicati; ha portato a un aumento del PIL di nove volte superiore ai periodi precedenti. Il fenomeno, spesso definito “gigantismo finanziario”, ha riguardato per lo più gli Stati Uniti e l’Inghilterra, per poi approdare anche in Europa, anche se in misura inferiore. Per rimediare a una concessione sconsiderata dei prestiti – nota come cartolarizzazione o securitization – il sistema bancario americano si è liberato dei crediti, esternalizzandone il rischio e rendendosi responsabile di una gestione piratesca dei mercati finanziari, che perdono via via la necessaria trasparenza.

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Per tutelarsi dal rischio del credito, le banche sono ricorse allo strumento dei derivati e hanno creato così un sistema di assicurazione globale noto come CDS o Credit Default Swaps. In frangenti come questi, la politica e le istituzioni dovrebbero avere un ruolo cruciale, invece hanno agito con omertà e connivenza (illuminanti, su questi temi, sono gli studi del premio Nobel Joseph Eugene Stigliz). L’amministrazione statunitense ha evitato di inserire i CDS nella regolamentazione assicurativa, consentendo, di fatto, alle banche di agire senza controllo e di trasformare i mercati finanziari in un grande casinò. Il vortice di denaro è cresciuto a dismisura ed è andato ad arricchire manager di banche e dirigenti del settore finanziario, così la ricchezza mondiale si è concentrata nelle tasche di un numero sempre più esiguo di persone. Un dato su tutti: negli ultimi trent’anni il 10% della popolazione globale ha ottenuto l’84% della ricchezza mondiale. Inevitabili le proteste in numerosi Paesi, che presero il via dalla manifestazione Occupy Wall Street del settembre 2011 a New York.

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Il maggior tasso di disuguaglianza nel mondo riguarda Stati Uniti, Cina, Russia, Inghilterra e, più di recente, Italia e Svezia. La ricchezza italiana, che è cosa ben diversa dal PIL nazionale, è circa sei o sette volte superiore al nostro PIL. L’indice di disuguaglianza più usato al mondo è il “coefficiente di Gini”, dal nome dello statistico italiano Corrado Gini, ed è compreso tra zero e uno. Quando è a zero significa che il Paese è egualitario, quando è a uno vuol dire che la ricchezza è concentrata nelle mani dell’1% della popolazione. Il nostro Paese, oggi, registra un Gini di 0,52, che diventa 0,48 se riferito al reddito. Troppo alto per definirci un Paese equo.

Al contrario di quanto caldeggiato dalla teoria neoliberista dominante negli anni Ottanta, nel processo di redistribuzione della ricchezza il ruolo dello Stato e del settore pubblico è fondamentale. Le istituzioni avrebbero dovuto arginare il processo di allontanamento delle risorse dal sistema produttivo e dell’esplosione di titoli tossici nel sistema finanziario, divenuto sempre più opaco. Un trend abbracciato anche dalle imprese, attirate dal reddito facile e da uno strapotere a portata di manager e intermediari finanziari, attraverso il fenomeno del “buy back”, che consiste nel riacquistare azioni di cui sono già in possesso per aumentarne il valore. «Nulla di tutto ciò è illegale», ribadisce Soci, «ma anni di elusione e connivenza da parte di una politica burattinaia hanno fatto sì che il capitalismo sottraesse profitti al sistema produttivo».

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L’aumento dell’indice Gini significa non solo aumento delle disuguaglianze, ma anche svuotamento della classe media, disimpegno da parte delle imprese, appiattimento salariale dei dipendenti. Dunque «sì», per tornare al quesito che dà il titolo alla lezione, «finanza fa rima con disuguaglianza, ma la vera responsabile è la politica, che a livello mondiale permette che questo avvenga», afferma Soci. Il suono delle campane ricorda che la lezione è finita, ma la professoressa lascia con un ultimo spunto su cui riflettere: «Un popolo che elegge corrotti, impostori, ladri, traditori non è vittima, è complice». Orwell aveva ragione.

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