Fra le pagine dei giornali femminili
8 9 2018
Fra le pagine dei giornali femminili

Una ricerca sull'evoluzione delle riviste femminili in Italia

«L’ho letta dal parrucchiere» è la scusa più usata per nascondere il fatto di leggere riviste femminili. Perché così tanta vergogna e così tanta smania di nascondere l’interesse verso questi prodotti, peraltro i pochi che stanno sopravvivendo alla crisi del settore editoriale? Da questa riflessione della scrittrice Elvira Seminara si è presentata la ricerca Donne in copertina, ideata e progettata da Maria Teresa Celotti, delegata alle Pari Opportunità dell'Ordine dei giornalisti della Lombardia, in collaborazione con Oreste Pivetta. Insieme a Seminara Alessandro Galimberti (Presidente dell’OdG Lombardia) e il giornalista e sociologo Enrico Finzi.

«In realtà i giornali femminili hanno una lunghissima tradizione nel nostro paese» spiega la scrittrice. «I primi sono apparsi in Italia nel 1786 ed erano dei giornali che diffondevano precetti legati all’igiene, al decoro e alle norme sociali validi per tutti, senza distinzione di genere». Questo tipo di riviste ebbe un grande boom dall’Unità d’Italia fino ai primi decenni del Novecento (si pensi che fra il 1862 e il 1920 i femminili pubblicati regolarmente erano più di 100) per poi essere addirittura potenziate durante il Ventennio fascista. «Negli anni Trenta Mussolini iniziò a utilizzare queste riviste per trasmettere l’idea della donna forte, in salute, capace di dare alla luce molti figli per la sua patria» spiega Galimberti. Ma, inconsapevolmente, furono proprio i femminili di questi anni a sviluppare la strategia che si sta rivelando vincente per questi giornali anche oggi, più di 80 anni dopo. «Con l’introduzione della posta del cuore, i femminili fascisti iniziarono a creare una community di donne che parlavano fra loro dei propri problemi attraverso la rubrica del giornale».

Un po’ quello che sta succedendo con i social network al giorno d’oggi, strumento che le riviste femminili stanno iniziando a sfruttare a proprio favore, a differenza di quanto fa il resto dell’editoria. «Prendiamo l’esempio di Donna Moderna, diretto da Annalisa Monfreda» – suggerisce Galimberti – «stanno lavorando per fare il processo inverso a quello che consueto per i giornali: invece di vendere la pubblicità ai propri lettori, stanno costruendo una community con un sistema di valori e una serie di interessi che cercheranno poi di vendere alla pubblicità».

Proprio nell’asservimento alla pubblicità, però, Finzi vede la morte dell’editoria, che a suo avviso rischia di travolgere anche l’esempio virtuoso delle riviste al femminile: editori corrotti, giornalisti impossibilitati a svolgere il proprio lavoro eticamente e quindi spesso incapaci di rispondere alle esigenze di un pubblico femminile più colto e più consapevole di un tempo, la tendenza a trasformare il lettore in consumatore sono errori ancora molto diffusi. «Le donne italiane leggono sempre di più, in media hanno titoli di studio più alti dei loro coetanei maschi» – dice il sociologo – «si sono evolute, ma i femminili non hanno saputo dare spazio alle loro grandi battaglie». E poi c’è il web, che, togliendo l’intermediazione un tempo necessaria per ottenere un’informazione, è allo stesso tempo un grande alleato e il peggior nemico dell’editoria.

«Quello che fa la differenza, infatti, è la qualità» ha concluso Seminara. «Un giorno speriamo che non ci sarà più bisogno di distinguere fra giornali femminili e giornali per tutti, ma solo fra giornali fatti bene e giornali fatti male».

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