Il «destino manifesto» dell'Europa
7 9 2024
Il «destino manifesto» dell'Europa

L'identità europea di fronte ai Balcani e a tutto ciò che sta ad est

I Balcani. Uno spazio a noi molto vicino. Uno spazio dove, a sola un’ora e mezza di volo da Bologna, tra gli anni Novanta e Duemila, cadevano le bombe. Eppure, un luogo che ancor oggi stentiamo a definire davvero Europa. Questo il tema centrale del dialogo tra Michael Ignatieff, Kapka Kassabova e Luca Misculin, nel tentativo di definire questo pezzo del nostro continente così moralmente lontano. Negli anni, l’Unione Europea si è allargata notevolmente ad est, seguendo l’affermazione presente nel proprio statuto secondo cui uno dei suoi scopi è impegnarsi ad arrivare a comprendere nel tempo tutta l’Europa geografica. Questo allargamento, però, tra l’altro arrestatosi con l’ingresso della Croazia nel 2013, non ha mai nemmeno preso in considerazione l’idea di includere i Balcani. E molti ritengono che questa espansione sia avvenuta troppo velocemente, andando a includere paesi instabili e per lo più causa di complicazioni diplomatiche. Il problema, secondo Ignatieff (canadese ma a lungo rettore della Central European University a Budapest e sposato con una donna ungherese) è che noi per primi, appartenenti all’Europa più ricca, non consideriamo davvero Europa i Balcani e, forse, in generale tutto ciò che si trova a est di Vienna e dell’Adriatico.

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I Balcani sono come il lato oscuro dell’Europa, l’altra faccia della luna che non si vede e non si vuole vedere. Questa indifferenza, però, si paga: e oggi è forse già troppo tardi, dice Kassabova, per sradicare dagli abitanti di quei luoghi l’indifferenza verso l’Unione Europea, originata dalla perdita di speranza nel vedere che è l’Unione stessa a non interessarsi davvero di loro e del loro destino. Ma qui sta l’errore. Gli europei dimostrano di non aver ancora fatto ciò che dalla fine del secondo conflitto mondiale (e poi dell’Unione Sovietica) si chiede loro: capire chi sono, qual è e quale dev’essere la loro vera identità, e riconoscere che molta della loro cultura proviene da influssi provenienti da oriente. È più facile autocrearsi un’identità collettiva fasulla, idealizzata, e assumere un atteggiamento che in psicologia viene definito othering: pensare che quello che avviene al di là della linea che ci siamo tracciati non è nostra preoccupazione, è un problema degli altri che devono risolvere da soli.

Questo atteggiamento, in realtà, ci si ritorcerà contro, perché significa semplicemente nascondere la polvere sotto al tappeto. Lo stesso vale tra l’altro per l’Ungheria, che fa parte dei 27 ma è governata in modo autoritario contro ogni principio dell’Unione. Le ragioni di tutto ciò si possono ascrivere a diversi ordini: storico, economico, politico… In generale, per i Paesi dell’Europa orientale, che spesso hanno anche avuto una tradizione di autoritarismo ben precedente, riadattare la loro economia e la loro società all’economia di mercato in seguito al collasso dell’URSS è stato un vero e proprio trauma. Anche a questo si deve il nazionalismo esasperato (di cosa si tratta in fondo se non di una chiusura, un ripiegamento in sé stessi?) e fenomeni come l’exploit di Viktor Orbán. A queste nazioni serve e servirà tempo per cambiare, per entrare nei binari della vera democrazia e di un modello di efficienza e produttività che è nato nella parte occidentale del nostro continente e che non può semplicemente essere traslato nella loro dimensione pretendendo calzi a pennello.

Certo, lottare, manifestare, sensibilizzare in favore di una società più aperta, più democratica e più, in definitiva, europea, è un bene e anzi un dovere. La verità però è che siamo inclementi nei confronti della storia: pretendiamo da lei tutto e subito, e non capiamo invece che i suoi ingranaggi sono lenti e girano con tempi propri che non possiamo dominare completamente. La vera democrazia arriverà un giorno in Ungheria e nei Balcani. Ma non sarà domani questo giorno. L’importante è tenere sempre a mente che l’Europa è un continente unico, che va dall’Irlanda, alla Sicilia e agli Urali, e che essere finalmente, veramente tutti insieme Europa, è il nostro «destino manifesto».

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