Il genocidio degli armeni
12 9 2015
Il genocidio degli armeni

La realtà nelle parole.

A cento anni dal Medz Yeghern, il genocidio degli armeni del 1915, per la prima volta in Turchia sta nascendo la reale consapevolezza della strage e, come spesso accade, è la letteratura a farsi veicolo di questo delicato cambiamento: nel 2013 per settimane il best seller in Turchia è stato 1915: il genocidio degli armeni di Hasan Cemal. Fino a poco prima il termine 'genocidio' era stato oggetto di una ferrea censura da parte del governo e lo stesso Pamuk, Premio Nobel per la letteratura nel 2006, venne messo sotto processo per averlo utilizzato durante un'intervista.

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Nella Basilica Palatina di Santa Barbara, Antonia Arslan, Marcello Flores e Laura Mirchian raccontano la strage armena e di come la storia riemerga, a distanza di anni, con un'astuzia silenziosa. Non è forse un genocidio culturale quello che l'Isis sta compiendo in Medio Oriente? Le stesse tensioni verso la Siria, soprattutto di Russia e Iran, rimandano a interessi di più lunga data: almeno all'epoca dell'Impero romano nel caso dell'Iran. Quando le legioni arrivarono a Palmira trovarono l'inaspettata alleanza delle tribù locali, interessate ad un fronte unico contro l'espansione dei Persi, che dal territorio iraniano aspiravano alle coste mediterranee.

L'eco di tensioni politiche e culturali spesso risuona nella lingua, che accoglie fiduciosa i neologismi tecnologici e che, di fronte alle tragedie, deve trovare le parole per indicare nuovi delitti. Fino al 1944 il termine 'genocidio' non esisteva: accettarlo significa riconoscere le dimensioni della strage, nella speranza che il ricordo possa evitare il ripetersi delle storia.

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Ma le parole non sono solo un terreno di scontro, di battaglia ideologica o politica, sono tenere cose, che possono richiamare i tempi passati. Sono molte quelle che si legano alla Siria, fino a pochi anni fa il giardino d'Oriente, e che ora si intrecciano alle nostalgie di chi l'aveva conosciuta. Come il rumore delle perle di legno, il titolo del libro di Antonia Arslan, che è il suono dei lunghi fili carichi di perline all'ingresso dei bar, molti adesso inevitabilmente chiusi.

Come le prime pagine di Lettere da Damasco di Laura Mirachian, nella lettura di Arslan alla fine dell'incontro.

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