Il gioco della memoria di György Dragomán
8 9 2018
Il gioco della memoria di György Dragomán

Quando dimenticare è troppo facile

«L’oblio è come una maledizione che si posa sulle spalle di tutti, sulle mie, sulle sue»: è ciò con cui Wlodek Goldkorn si confronta insieme ai ricordi personali e ai suoi vividi personaggi di György Dragomán nell’incontro Nipoti della storia. Si tratta di un titolo non casuale, che tiene conto di alcuni temi cari al romanziere: l’atto di raccontare e quello di chiedere, la trasmissione di nonno in nipote dei ricordi più cari, la memoria personale e storica.

Proprio la memoria è il fulcro potente di romanzi come Il re bianco e Fiamme e del percorso che lo ha condotto alla scrittura. Tutto inizia quando l'autore è ancora un ragazzino di tredici anni: i genitori decidono di emigrare in Ungheria per sfuggire alla furia di Ceauşescu contro la minoranza ungherese (székelyek, che l’italiano traduce come siculi), minoranza "insaccata" e praticamente prigioniera in Transilvania in seguito alle divisioni territoriali del secondo dopoguerra. Non è una decisione facile da prendere né tanto meno da mettere in atto. Dragomán ricorda i due anni di attesa prima di ricevere i passaporti; un’attesa che si traduce in un lunghissimo addio a una città che non vuole essere lasciata né dimenticata. Il congedo è per il giovane scrittore straziante, così definitivo da farlo sentire un auto-esiliato anche quando si riaprono i confini. Ciò fa soprattutto crescere in lui la necessità di ingaggiare una partita contro l'oblio, un gioco della memoria: in quel lasso di tempo ogni sera va a dormire cercando di ricordare tutto quello che ha visto nel corso della giornata e, di volta in volta, dettagli diversi di strade o scorci della sua Târgu Mureş. Nella sua mente si profila una mappa solida e chiara che, tuttavia, a distanza di venticinque anni si rivela fallace e inattuale. Questa ossessione per la memoria (lui stesso definisce il suo gioco «troppo serio») segna in profondità il processo creativo che lo porta a scrivere i suoi romanzi. Entrambi sono ambientati in una qualunque città della Transilvania che non viene mai nominata, così come accade con la Romania e con lo stesso Ceauşescu. In una società talmente oppressiva e lacerante per gli adulti, Dragomán non vede altra soluzione se non quella di adottare il punto di vista di due ragazzini, Dzsátá ed Emma. In assenza di libertà, rileva infatti l'autore, tutti vengono trattati come bambini e solo l’occhio di un bambino può accettare l’assurdità di regole e imposizioni tanto assurde quanto brutali. Volete una soluzione per scoprire se siete in una dittatura? Lo scrittore vi invita a chiedervi questo: «mi stanno trattando come un bambino?». Se sì, avrete una piena e inequivocabile risposta.

Questa è solo una delle tante domande che Dragomán si pone e ci pone: che cos’è la memoria? È possibile ricordare tutto? Qual è il piatto preferito dei miei quattro nonni? Non si tratta di interrogativi che rimangono sospesi a mezz’aria, ma di questioni vive e tangibili. Dragomán (ci) ricorda quanto sia facile dimenticare, quanto, ad esempio, pochi decenni di comunismo siano stati efficaci nel far dimenticare a un intero popolo di parlare la stessa lingua al di là del confine romeno, oppure a far cadere nell'oblio uno scrittore fondamentale come Sándor Márai. Questa stessa lezione viene trasmessa da nonna a nipote in Fiamme: «Nonna dice che ho capito l’essenziale, oppure l’ho sempre saputo. Il dolore aiuta a ricordare, non solo il dolore ma tutto, perché è necessario ricordare tutto, perché esiste solo quello che ricordiamo, quello che dimentichiamo non c’è più, scompare dal passato, scompare dal mondo […] Nonna dice che devo sapere che dimenticare è facile. Forse credo che non dimenticherò mai nulla, che ricorderò sempre tutto, ma non sarà così. Si possono dimenticare anche le cose più importanti, le migliori e le peggiori, il dolore più grande e la gioia più grande, tutto, proprio tutto». Ancora una volta, sono i piccoli dettagli ad alimentare la memoria, quei dettagli che ci spingono a rivolgere mille lievi domande ai nostri congiunti e che popolano il mondo magico attorno a Emma.

In una dimensione di amnesia completa come quella di un regime in cui l’inno e i nomi dei re possono cambiare da un giorno all’altro, le parole della nonna di Emma rimbombano potenti contro ogni tipo di nostalgia dirottata, che per Dragomán rappresenta il modo più semplice – e semplicistico – di far riemergere il passato di un popolo. È proprio il piatto che il potere porge: una risposta semplice e nostalgica che afferma perentoria ciò che si è stati e chi si deve essere. Alla luce dei traumi infantili, lo scrittore si muove quindi sospettoso nei confronti di ogni forza politica che si impone proponendo risposte troppo facili, atte a sospendere ogni tipo di autodefinizione e di ricerca individuale. Ciò sta alla base di Fiamme ed è il motivo per cui la gestazione del romanzo è durata ben nove anni, senza una soluzione. Il suo invito finale si allarga al presente e si collega proprio a questo: con una situazione sempre più tesa in Ungheria e in altri paesi dell’Europa orientale la tentazione di attaccare con gli stessi toni assoluti, perentori, è quantomai incombente. Il ricordo, l’ascolto, il cogliere ogni voce sino ai sussurri si rivelano quindi fondamentali ora più che mai, proprio come Emma fa con la nonna e Dragomán con il suo gioco della memoria.

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