Il nascondiglio di Christophe Boltanski
Se i confini geografici sono valicabili, ancor più lo sono quelli che convenzionalmente delimitano i generi letterari: gli scrittori di questa edizione si dimostrano tra i più propensi a muoversi liberamente tra canoni, forme e registri espressivi.
Bruno Gambarotta, nelle prime parole della sua introduzione al pubblico presente alla Basilica Palatina di Santa Barbara, lo definisce un libro «strepitoso, fondamentale, bellissimo». E chiede a Christophe Boltanski perché abbia scritto solo ora un romanzo, nella sua importante carriera di giornalista e inviato di guerra. Il nascondiglio (Sellerio, 2017; edizione originale: La cache, Éditions Stock 2015; Prix Femina 2015) è infatti il primo romanzo dell’autore francese, che è parte di quella stirpe di Boltanski che ha generato anche Luc – sociologo, suo padre –, Jean-Élie – linguista, suo nonno – e Christian, tra i più importanti artisti contemporanei viventi.
Un libro in cui il tema è la paura e il protagonista è il luogo di svolgimento del racconto, ovvero la grande casa parigina dei Boltanski in Rue de Grenelle, nel VII arrondissement. Una casa che ha visto e plasmato le vite dei Boltanski a partire dal bisnonno dell’autore, emigrato in Francia da Odessa a fine Ottocento. Una casa che si esplora stanza dopo stanza – dal cortile, dov’è parcheggiata stabilmente la Fiat Cinquecento di famiglia, alla cucina, al bagno, alle camere da letto e così via – a scoprire e seguire le vite degli eclettici personaggi che la abitano. E che vivono sempre tutti insieme, nella veglia e nel sonno, nei momenti dedicati al cibo e in quelli dedicati all’apprendimento o al gioco. Sempre e comunque, tutti insieme, tra ironia e dolore.
Più che reclusi, coesi, i Boltanski. Irrinunciabilmente compatti e compattati gli uni agli altri nella loro quotidianità, raccontati dall’autore in un viaggio che è più spaziale che cronologico. Perché lo spazio è il vero protagonista: un protagonista rispettato, un dispositivo esistente e fisso che l’autore ha scelto come suo vincolo rispetto alla scrittura. Tra i modelli letterari di riferimento per Boltanski, su domanda di Gambarotta, c’è Georges Perec: e il suo celebre La Vie Mode d’emploi (1978; in italiano, La Vita istruzioni per l’uso, Rizzoli 1984) è proprio uno splendido inno alla regola, alla condizione, alla gabbia. E secondo Gambarotta, uno «scrittore di razza» lo si riconosce anche dall’amore per il vincolo, il quale può far sì che le parole non scritte in un libro siano quasi in maggior numero. Di parole, di Boltanski romanziere, ne attendiamo ancora e presto: in cantiere c’è un altro libro, che sarà sempre dedicato alla sua famiglia.
Per approfondire ulteriormente potete seguire l'intervista rilasciata a Festivaletteratura