L'epopea della Postfotografia
9 9 2018
L'epopea della Postfotografia

Massificazione e dematerializzazione delle immagini secondo Joan Fontcuberta

Nell'introduzione dell'incontro Abitare l'iconosfera, il giornalista di "Repubblica" Michele Smargiassi ha definito Joan Fontcuberta un «sorridente filosofo della fotografia», «fabbricante di vaccini omeopatici contro la credulità», ma anche «costruttore di meccanismi per mettere alla prova i vaccini stessi». L'artista spagnolo, poco più che sessantenne, nell'arco di una lunga carriera si è misurato col confine fra il vero e il falso attraverso insegnamento universitario, i saggi, la fotografia e tramite installazioni che tendono tranelli alla nostra vulnerabilità di lettori. Un esempio è l’epopea della Soyuz 2, la cui missione, finita in maniera tragica, non poteva certo essere raccontata. Ma lo svelamento operato da Fontcuberta ha preso forma attraverso il recupero e l’esposizione dei documenti secretati. Il tratto distintivo di Fontcuberta, ci dice Smargiassi, è il connubio tra fotografia e critica. L'amore per la fotografia è anche, in un certo senso, un tradimento: citando una sua opera, «la fotografia è un bacio di giuda», un gesto d’amore che ci tradisce. Si rivela quindi fondamentale saper gestire politicamente le immagini, anziché esserne usati. Questo è il tema dell'intervento di Fontcuberta, che si definisce un fotografo "letterario" ma poco letterale. Letterario perché intende la fotografia come narrazione, ma poco letterale perché non la intende come specchio della realtà, ma come una trappola: «Non sono un guastafeste, non voglio dare fastidio, ma penso che tutti, ogni tanto, abbiamo bisogno di una visita dall'oftalmologo per essere sicuri di non essere miopi o ipermetropi. Il mio lavoro è analogo, ma con la fotografia».

Fontcuberta si percepisce come una specie di direttore d’orchestra, che integra il suo lavoro di fotografo con la curatela di mostre ed esposizioni. Da questa prospettiva ci descrive quella che lui definisce «epoca della postfotografia», caratterizzata dalla massificazione delle immagini, dalla loro dematerializzazione e dall'accesso universale alle foto scattate. Nell’epoca della postfotografia l’uomo diventa homo photographicus, produttore e consumatore dell’immagine in un solo momento. A questo punto l'autore propone diversi esempi per raccontare le distorsioni presenti in questa forma di rappresentazione del reale. La più eloquente è senz'altro quella dei flat daddies, che sono cartonati a grandezza naturale dei soldati americani. L’esercito li realizza per le famiglie, affinché li conservino come surrogati in assenza del proprio caro: la fotografia è una sostituzione piatta della realtà.

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Al giorno d’oggi è facilissimo scattare foto: si impara a fotografare come si impara a parlare e la fotografia, che ormai è a costo zero, diventa una estensione dei nostri occhi e delle nostre mani. Questo porta a una sovrapproduzione di foto, che vengono scattate ma non vengono mai viste, perché non ce ne rimane il tempo materiale. Le persone, afferma Fontcuberta, scattano fotografie nei momenti epocali come la nomina di un nuovo papa o di un presidente non per documentare l’evento, ma per iscriversi all’evento storico. L’atto di fare foto acquisisce quindi una naturalezza celebratoria. E Fontcuberta porta altre evidenze che avvalorano questa tesi: per esempio ha calcolato che nel 2017, in un giorno siano state caricate in media 800 milioni di immagini su Snapchat, circa 350 milioni su Facebook e 80 Instagram. A una persona che desidera vedere tutte queste foto, dedicando un secondo a ciascuna, occorrerebbero più di 50 anni per vederle tutte, e senza mai dormire. Attraverso la mania dei selfie, poi, l’evoluzione della fotografia percorre un altro gradino: nata come documentazione della realtà ha enfatizzato la retorica attraverso la stage photography, che costruisce la scena. E arriva alla fase della postfotografia, quando quello che era il soggetto diventa lo sfondo, mentre il fotografo diventa il soggetto della sua stessa opera. Un esempio è quello di un celebre selfie a Pamplona, durante l’encierro dei tori.

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Ci sono alcuni esperimenti artistici che cercano di svelare questo meccanismo legato all’iperproduzione. Uno è quello dell’artista Philipp Schmitt, che ha creato una Camera Ristretta: questa si collega a Internet e, attraverso i geotag delle foto, impedisce lo scatto di una fotografia in luoghi in cui siano giù state scattate molte foto caricate su Flickr o Panoramio, garantendo così l’originalità dello scatto.

Altri esempi di sabotaggio della creazione di immagini oggettive sono forniti da artisti come Ben Kingsley e Robin Hewlett: individuando i percorsi delle macchine di Google che catturano le immagini stradali per Street View, i due le aspettano con bande e majorettes. Oppure c’è il caso dell’artista Marta Mantyka, che colleziona frivole fotografie caricate sui social network da turisti in visita ad Auschwitz. Altri artisti, poi documentano il declino del sublime, raccogliendo e ripubblicando foto disponibili su Internet attraverso criteri assurdi, oppure inserendo elementi spuri, fra cui anche parti del corpo normalmente non in vista, in splendide foto di panorami.

Se vogliamo essere utenti consapevoli delle immagini dobbiamo essere in grado di gestire questa incredibile abbondanza e di mettere sempre alla prova la nostra capacità critica di decrittare le immagini che vediamo.

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