La grande Storia è fatta di piccole storie
14 9 2015
La grande Storia è fatta di piccole storie

Gli ultimi tre giorni di Pompei nel racconto di Alberto Angela

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Ma io me la sarei cavata? È questa la domanda che la maggior parte di noi si pone di fronte alle grandi catastrofi naturali. Perché? Perché “siamo sapiens dotati di empatia” spiega Alberto Angela al pubblico che affolla Piazza Castello sabato 12 settembre, in occasione della sua lezione-spettacolo ispirata al suo libro I tre giorni di Pompei. La sua ultima opera, non a caso, ha molto a che fare con l’empatia e con i cataclismi: è il racconto delle ultime 72 ore della città di Pompei prima della famosa eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Un racconto inusuale, inaspettato e ottimista, che sceglie di narrare le vicende dei sette sopravvissuti e per una volta di escludere i 1000 morti di Pompei (e più, dal momento che ⅓ della città non è mai stato scavato e si calcola che potrebbe celare almeno altri 500 morti) e i circa 300 di Ercolano. Quella che Angela descrive è la vita di tutti i giorni, che si snoda fra il cardo e il decumano, nelle botteghe, nei templi, nelle ville dell’alta nobiltà e nelle fattorie appena oltre i confini cittadini. “Perché mai mettersi a scrivere un copione cinematografico o un romanzo quando sono esistite persone in carne e ossa con storie forse ancora più interessanti?”, si chiede lo scrittore nell’introduzione. La grande storia è fatta di piccole storie e la loro forza è l’empatia che riescono a creare in noi.

I tre giorni di Pompei, non esclude aspetti saggistici con l’obiettivo ben preciso di sfatare alcuni miti circolati negli anni riguardo all’eruzione del 79 d.C. Primo, il vulcano responsabile della distruzione di Pompei ed Ercolano non fu il Vesuvio, bensì un vulcano più antico, il Somma (o Vesuvius secondo gli antichi romani), al centro del quale sorse, proprio in seguito a quella disastrosa eruzione, il vulcano che oggi vediamo nel panorama napoletano. Secondo, l’eruzione non fu affatto improvvisa, ma fu preceduta da numerosi segnali, per esempio le scosse di terremoto iniziate ben 16 anni prima, che semplicemente gli antichi romani non erano in grado di leggere per prevedere la catastrofe. Terzo, la data dell’eruzione: Plinio il Giovane, che lasciò una testimonianza scritta della tragedia, la riconosce nel 24 agosto, ma alcuni ritrovamenti (bracieri, abiti pesanti, castagne, noci) fanno slittare la datazione in avanti, rendendo più probabile il 24 ottobre. E poi la lava, che non ci fu affatto: a distruggere Pompei fu una pioggia di pomici e una nuvola ardente di detriti e gas. Nessuno morì bruciato; alcuni morirono schiacciati dai propri tetti, sotto cui cercavano riparo; altri morirono per occlusione delle vie respiratorie causata dalla cenere e dall’anidride solforosa contenuta nella nube che a contatto con le mucose si trasforma in acido solforico. Quando visitiamo questo sito archeologico dobbiamo sempre ricordarci che quelle che vediamo non sono statue, ma persone fissate nel momento esatto in cui muoiono.

Per questo Pompei è una finestra unica sul passato, in cui è bene intrufolarsi per capire il nostro presente. Alberto Angela, infatti, ha deciso insieme all’editore Rizzoli di devolvere parte dei ricavi del libro per restaurare alcune zone del sito archeologico di Pompei (da poco è stato terminato il restauro dell’affresco dell’Adone Ferito), proprio per non spezzare il filo che collega noi italiani del ventunesimo secolo e i nostri antenati morti tragicamente in questa vicenda.

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