Un’indagine sul canto delle sirene del populismo
Cos’hanno in comune un sociologo e un violoncellista? Tutto, se sono Richard Sennett.
In La Società del Palcoscenico (Feltrinelli, 2024) Sennett unisce le sue due carriere e ragiona sul rapporto che lega la performance dei cosiddetti “leader carismatici” (contemporanei e non) alla musica e alla danza. È una ricerca dichiaratamente senza tesi, senza risposte nuove, un’analisi di scritti e fatti già esistenti (questo lo dice Sennett: «una tesi c’è, eccome»).
Nota la continuità tra i discorsi di politici che definisce «nuovi demagoghi» come Donald Trump e Boris Johnson e il fraseggio musicale. Le loro parole sono vuote, ma il ritmo dei loro discorsi riesce a stregare chi li ascolta, la forma e la percezione sensoriale superano di gran lunga il contenuto. Tutto questo supera il populismo, il punto non è che i discorsi sono fatti di cliché senza senso perché in fondo non importa più il cosa si dice, ma sempre e solo il come.
Per la situazione di Trump Sennett si dice spaventato, che siamo all’atto V del King Lear . Il re è sul punto di morire, manipolato da figlie spregiudicate e determinate a fargli cambiare le regole della monarchia a proprio vantaggio finché sono ancora in tempo. Così, Trump sembra essere circondato di persone che non vedono l’ora di sfruttare quest’ultimo slancio carismatico, questo «ultimo respiro», per poter cambiare le istituzioni con leggi e provvedimenti che sopravviveranno di gran lunga al loro leader.
«Beh, a questo punto il mio libro dovrà sembrarvi piuttosto deprimente».
«Allora parliamo di come rituali e performance si relazionano tra loro nella nostra vita quotidiana, dei modi in cui la vita è un palcoscenico» (questo è Shakespeare).
Un rituale è stabile, ripetitivo, in qualche modo alleggerisce l’individuo della propria responsabilità perché ciò che conta è che si segua la procedura giusta. Il protagonista del rituale è il suo contenuto. «L’importante non è quale prete dice la messa, l’importante è la messa stessa».
Il rituale può essere consolatorio, mantenerci attaccati alle nostre radici (si pensi a quale conforto sia per un immigrato poter conservare le proprie pratiche religiose, ad esempio).
Una performance, per contro, sposta l’attenzione su chi compie le azioni, deve essere sempre nuova, sempre eccitante, la ripetizione fa perdere di carisma se il contenuto non è convincente.
È come, secondo Sennett, nello star system musicale, per cui ci si concentra talmente tanto sulle abilità performative da dimenticare l’essenza della musica. «Si va a vedere un quartetto di Brahms non perché si abbia voglia di ascoltare Brahms, ma solo perché suona il tale musicista tanto famoso».
Esiste un modello alternativo di “mondo-come-palcoscenico”: quello classico.
Nelle poleis greche il teatro si trovava nella città, era parte integrante della vita della comunità, era un luogo di incontro e confronto tra individui diversi che per quel breve momento avevano tutti esattamente la stessa importanza.
L’invito di Sennett è a costruire spazi di comunità che possano essere palcoscenici urbani, che non siano città finte confezionate ad hoc per i turisti, che permettano a ognuno di raccontare la propria storia e, insieme, a ricominciare finalmente ad essere a proprio agio nella vicinanza (anche fisica) con l’altro, con il diverso.