La Storia e i suoi vuoti: raccontare per salvare
11 9 2021
La Storia e i suoi vuoti: raccontare per salvare

Valerio e Alfieri in dialogo su esorcismi e mancati lieto fine

«L’esorcismo è un po’ come la nazionale di calcio, tutti hanno la propria idea, anche se magari non hanno mai visto manco il film L’esorcista». Così presenta Chiara Valerio il tema del libro di cui si discute oggi a Palazzo della Ragione, Veronica e il diavolo, edito da Einaudi, con l’autrice Fernanda Alfieri.

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L’incontro si svolge al ritmo concitato delle curiosità originali e brillanti di Valerio, che prende da subito confidenza con l’autrice perché racconta di averla conosciuta nel 2001 al binario 23 della stazione di Bologna, per essere precisi («Le ho chiesto da accendere, ma stavo fumando io» specifica Valerio per rassicurare i genitori di Alfieri presenti in sala). Alfieri leggeva un libro di Paola Lupo Lo specchio incrinato. Storia dell’omosessualità femminile, che Chiara Valerio avrebbe comprato poco dopo, e tra le due è successo quello che succede spesso a chi si incontra per la prima volta ma ha letto gli stessi libri: si è scaturita subito quella sensazione di conoscersi già da una vita.

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Fernanda Alfieri è una storica, insegna Storia moderna all’Università di Bologna e la vicenda di questo libro le è precipitata addosso mentre cercava altro. In maniera totalmente causale, infatti, si è trovata tra le mani un manoscritto con recava il titolo di Esorcizzazione di Maria Antonina Haremani, ritenuta ossessa (1834-1835): 300 carte scritte a più mani da due padri gesuiti, autori dello stesso esorcismo.

Maria Antonina, diventata Veronica nella storia raccontata da Fernanda, era l’ultima erede di una famiglia cosmopolita di Roma, gli Heremani, che lavorava per il papa, e che comincia a manifestare quelli che vengono interpretati da subito come sintomi di possessione. Nel manoscritto i gesuiti riportano tutti i tentativi, più o meno rituali e canonici, messi in atto per liberare la ragazza dal suo male. I personaggi maschili che via via si alternano sopra al corpo malato di Veronica e lo stesso corpo di Veronica (anche immagine di copertina) riempiono le pagine di questo libro che è limitante definire solo “romanzo”.

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Alfieri, infatti, alterna costantemente stralci del diario, analizzati storicamente, all’itinerario romanzesco della vicenda, regalandoci, secondo Chiara Valerio, un’importante lezione di narrazione: ci sono i fatti e ci si smette di interrogare sul plausibile. Tutto ciò, secondo la matematica, è molto educativo in un mondo di fake news e opinioni passanti, «tu sei solo quello che sai».

Tuttavia, quando si ha a che fare con la Storia, con la ricostruzione storica nello specifico, il rischio è che quello che si conosce non basti, non arrivi a una risoluzione; chi ricostruisce i pezzi potrebbe non riuscire a colmare i vuoti della Storia. È quello che succede in questa vicenda. Il manoscritto a un certo punto si interrompe e, commenta Valerio, nel lettore si genera una sorta di «malinconia disneyana per il passato» generata da quel gap tra «l’amore per il passato e la tristezza per non saperlo raccontare tutto». Ha senso allora raccontare comunque questa storia anche se non si arriva, come vorrebbe marvelianamente Valeio, a salvare Veronica? Qual è l’obiettivo di una testimonianza di questo tipo?

La scrittrice ammette che quando si è imbattuta in quelle carte non pensava di scriverne in questo modo, ma il desiderio di toccare con mano la realtà materiale di quei corpi e di quelle vite è diventato fortissimo. Del resto, queste riportavano ogni piccolo dettaglio delle giornate di Veronica: quello che mangiava, il suo umore, il modo in cui portava i capelli. La sua presenza era diventata davvero vivida. Essendo, poi, un fatto relativamente recente, la storica ha coltivato l’illusione di poter trovare tracce di Veronica altrove. Ha davvero cercato ovunque, in ogni archivio di Roma, e trovato la sua protagonista anche immersa in compravendite o in attività molto lontane da quelle di quel corpo in contorsione di cui era abituata a leggere. La verità è che «Nonostante tutte queste ricerche, non so nulla di Veronica», confessa Alfieri. A dispetto di ciò, ammette di aver avuto la presunzione di poterne almeno restituire la memoria, come se condividere le sue vicende con la lettura degli altri potesse darle qualche possibilità in più di salvezza. Tra Veronica e Fernanda nasce una fortissima empatia e, nelle ultime pagine, l’autrice racconta di essere andata al cimitero dove la ragazza è sepolta. E secondo Chiara Valerio questa è la più bella storia d’amore che le è capitata di sentire negli ultimi secoli!

Con lo stesso interesse e la stessa irriverenza con cui ci ha guidato tra le fila della storia di Veronica, Valerio indaga anche la professione di storica-scrittrice dell’Alfieri. Vuole sapere quando ha iniziato a sentire la fascinazione per il mondo delle carte. Fernanda Alfieri rivela che viene da molto lontano, e che quella per la carta è una passione molto fisica in verità, che nasce dall’amore per il suono dei sacchetti di carta per la frutta, tanto che il suo sogno di bambina era quello di diventare fruttivendola! Un trasporto irrazionale e quasi corporeo, dunque, quello per la carta, che è poi diventato passione per il farsi domande. Alfieri ha iniziato il suo lavoro di ricerca storica analizzando, attraverso testi giuridici del Cinquecento, come si sia formata nell’immaginario collettivo quell’idea di un femminile naturalmente orientato verso il matrimonio e la maternità. Nella storia di Veronica e nella Storia approfondita dall’Alfieri accademica, infatti, c’è anche -quasi inevitabilmente- una componente di genere. Valerio si chiede se esista davvero lo sguardo femminile della Storia e se ci sia differenza nel modo in cui uomini e donne si occupano di questa materia.

La storia come disciplina accademia è una creazione ottocentesca, teorizzata e messa in pratica da esperti maschi. Solo dagli anni Settanta hanno iniziato a farsi sentire le voci femminili che, secondo la visione dell’Alfieri, hanno necessariamente un modo diverso di scrivere Storia. La condizione in cui la donna accede al lavoro e alla scrittura sono infatti esse stesse differenti: intercettano sensibilità e argomenti diversi. È con le donne che si sono iniziati a storicizzare elementi naturali come la maternità, ad esempio. Questo non significa che la donna storica non possa occuparsi di storia economica, certamente però non potrà essere esorcista, monopolio esclusivo del sesso maschile.

Questo dialogo vivace e familiare, sospeso tra manoscritti e romanzo, si chiude con la domanda delle domande per chi scrive storie a partire dalla Storia (quella con la S maiuscola): che differenza c’è tra Storia e letteratura? Per Fernanda Alfieri il discrimine è forse nelle preoccupazioni che coinvolgono lo storico (quelle per le condizioni atmosferiche di quel particolare giorno in cui si svolge quel particolare fatto e che secondo la mentalità del tempo influenzavano l’umore, per esempio), la ricerca alla base, l’accuratezza. Wlodek Goldkorn, presente tra il pubblico e chiamato da Valerio a rispondere alla stessa domanda, dichiara che la differenza sta nella libertà. Anche lui è uno scrittore che parla di storia, ma non è uno storico e può prendersi il lusso di sostenere con convinzione che i fantasmi esistano.

Valerio saluta Alfieri domandandole cosa o chi, in questa storia di parole non sue, si porti dietro. Alfieri, da brava storica, dopo qualche secondo di titubanza, risponde che da tutta questa vicenda porta ancora con sé Padre Kohlman, il gesuita più anziano, quello che «mi ha fatto arrabbiare di più e che probabilmente continuerò a inseguire». Come aveva detto poco prima, d’altronde, «il fare storia implica il farsi delle domande su un problema irrisolto», lo storico sa che c’è sempre qualcuno da salvare, se non dal diavolo, almeno dall’oblio.

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