Le nuove frontiere dello sfruttamento
8 9 2018
Le nuove frontiere dello sfruttamento

Le avanguardie del lavoro precario

La disaffezione verso le forme tradizionali della rappresentanza politica, la rabbia nei confronti delle élites che attraversano oggi gran parte delle comunità occidentali sono sentimenti che trovano alimento nelle trasformazioni profonde che attraversano l'organizzazione dei sistemi economici e la natura stessa delle democrazie.


«In Italia di lavoro si parla pochissimo, e se ne parla male. Non è considerato un tema all’ordine del giorno, eppure ovunque io vada sento persone che parlano delle loro condizioni di lavoro». Marta Fana (autrice di Non è lavoro, è sfruttamento) ha attirato di recente su di sé l’attenzione del grande pubblico in quanto “ospite seriale di talk-show”. È stata definita da Il Foglio «una nuova stella mediatica all’incrocio ideologico tra Marx, Occupy Wall Street, Diego Fusaro e Loretta Napoleoni». Il suo curriculum parla da sé: un dottorato di ricerca in economia presso SciencesPo, una delle più prestigiose istituzioni universitarie d’Europa. Oggi racconta le nuove frontiere del lavoro precario insieme a Riccardo Staglianò (Lavoretti, Al posto tuo)

Il lavoro com’era una volta non esiste più. Lo sfruttamento e il lavoro precario non sono una questione generazionale o etnica, ma realtà che interessano tutti. Il mantra è “più flessibilità, più occupazione”, statement ideologico in realtà privo di fondamento. «Negli ultimi trent’anni il mercato del lavoro è cambiato, i diritti dei lavoratori sono stati tagliati, per rendere l’Italia più competitiva sul piano internazionale. E poi è arrivato il progresso tecnologico, che ha stravolto tutto. La tecnologia viene adoperata non per liberare l’uomo dalla fatica del lavoro, non è neutrale, controlla sempre di più i lavoratori». Si parla di gig economy: un caleidoscopio di lavoretti a cui i Millennials e i sessantenni meno fortunati sono costretti per riuscire a vivere dignitosamente. Il modello economico di partenza è quello della sharing economy, «termine già di per sé ricattatorio: solo le brutte persone sono contrarie alla condivisione».

Fana dedica ampio spazio, nel suo libro, alle condizioni di lavoro dei riders (i fattorini dei colossi del food delivery, come Foodora e Deliveroo) e degli impiegati in logistica, a partire dall’organizzazione del lavoro, da lei definita «neotaylorista». Condizioni di lavoro «da inizio Novecento»: queste piattaforme tecnologiche performanti e all’avanguardia resuscitano figure di lavoratori sepolte da un secolo. «Il cottimo ci è stato presentato come una forma di innovazione, di modernità. Nel caso di Foodora, chi farà la consegna lo decide un algoritmo: più vai veloce, più hai probabilità di essere scelto. Tutto questo in un clima di forte competizione individuale». Spesso ci si dimentica che solamente i lavoratori producono ricchezza: «Se i fattorini si fermano, si ferma la circolazione delle merci e non si crea più valore per le aziende». Le imprese non hanno nessun obbligo verso di loro, che sono considerati dei collaboratori, delle partite IVA, addirittura dei fornitori di servizi anziché lavoratori dipendenti: «Foodora ha dichiarato che, se scegliesse di sottostare a un contratto collettivo nazionale, non avrebbe più nessuna ragione economica per rimanere in Italia. Di solito il primo requisito di un’azienda funzionante è poter pagare i propri fattori. Ma qui l’obiettivo è diventare dei monopolisti sul mercato, e quindi spendono tutti i loro introiti in marketing».

Staglianò definisce Uber «campioni olimpionici di illusione fiscale»: «Non pagano le tasse sul 99% di quello che guadagnano. Sono evasori pressoché totali ed è tutto perfettamente legale. Chapeau ai loro commercialisti!». Facendo ricorso a un esempio meno “esotico”, ricorda una visita al centro di smistamento di Amazon nel piacentino: «Ricordo vividamente che un lavoratore con candore assoluto mi disse: “Non pensare a un magazzino, pensa a una fabbrica”»

Ma come si è arrivati a questo punto? I due ripercorrono insieme le tappe dello smontamento quarantennale del valore del lavoro. «La crisi italiana non è iniziata nel 2008, ma fa esplodere contraddizioni esistenti fin dagli anni Settanta, quando abbiamo raggiunto uno stadio avanzato di produzione industriale. Ci stiamo dirigendo verso una struttura produttiva povera alla base».

L’economia e la politica, secondo loro, non possono essere separate: «Lo stato non si è mai ritirato nell’economia, ha solo spostato il suo baricentro d’interesse. Privatizzazioni ed esternalizzazioni sono scelte politiche, non sono innescate dalla crisi: è come abbiamo scelto di gestire il debito pubblico in Italia». La soluzione? Prima di tutto cambiare la cultura degli italiani rispetto al lavoro: «Siamo un popolo di produttivisti, bloccati all’interno di una logica mercantilista. Crediamo di crescere solamente se esportiamo».


Per chi vuole approfondire il percorso, Festivaletteratura propone:

Evento 25 “Europa, sovranità e democrazia” - Evento 26 “Classi dirigenti e classi subalterne in Italia” - Evento 89 “Il reddito di base” - Evento 150 “La gente e il decoro” - Evento 202 “Un’economia senza peccati”.

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