Le Olimpiadi del 1936
12 9 2015
Le Olimpiadi del 1936

Uno spettacolo di Federico Buffa

Come si può raccontare un'emozione? Come si può rendere la gioia di vincere una medaglia, di partecipare alla più grande competizione sportiva, la nostalgia di ricordare quello che è stato? Berlino 1936. Non è stata un'olimpiade. E' stata l'olimpiade di Berlino del 1936.

Un locale berlinese. Tavoli coperti dal tempo. Un pianoforte. E il ricordo inizia, con le parole di un malinconico Federico Buffa nei panni del direttore del villaggio olimpico. "Mi piaceva venire qui un tempo. Berlino era stupenda. Ora ci sono solo scheletri di palazzi. E odori di un passato che non c'è più". Herr Fustner avrebbe dovuto controllare tutto e tutti al villaggio olimpico, ma gli atleti lo fecero sentire uno di loro e non fece nulla. Oltre al cuore, tenne aperto anche i cancelli. E fu degradato. Forse perché scorreva sangue anche ebraico nelle sue vene, ma questa è un'altra storia, e tragica.

Leni Riefenstahl fu la grandissima regista di quell'edizione, colei che rese le olimpiadi di Berlino veramente immortali. Artista a tutti i livelli, di una bellezza particolare, come quella della Carmen di Bizet. Impossibile non innamorarsi di lei. Attrice, viene fotografata in bikini sugli sci e finisce su Time. Lo schermo se lo mangia e rimane in lizza per interpretare l'angelo azzurro. E passa dietro la telecamera. Dicono fosse l'amante di Hitler e durante i giochi fece tutto quello che voleva. Grandiosi mezzi, telecamere ovunque, riprese mozzafiato. Non si sarebbe più fatto quello che poté fare lei. Gli atleti come modelli di statue greche, la classicità portata al massimo livello. Per propaganda. Ma il livello raggiunto superò la politica e divenne indimenticabile. Si innamorò di Glenn Morris, il decathleta americano che ovviamente vinse l'oro nella specialità e venne ripreso in maniera quasi morbosa. Sapeva fare tutto Morris, basket, football, atletica. E decisero davvero di fargli fare tutto, appunto, con il decathlon. Non perse mai una gara. E finì a fare Tarzan al cinema, insieme ad un'altra strana atleta, Eleanor Holm. Campionessa di nuoto e medaglia d'oro già a 18 anni alle olimpiadi del '32. Stravagante. Si ubriacò a tal punto sulla nave in viaggio verso Berlino che fu esclusa dai giochi. Ma si riciclò come giornalista (anche se non scrisse mai una riga) e soprattutto fu la protagonista delle feste olimpiche insieme a tutti i gerarchi nazisti.

I nazisti. Pure il capo delegazione americano era nazista, di quelli veri. Permise a 18 spettacolari atleti negri di far parte della selezione. Nessun ebreo. E assolutamente, nonostante l'opinione pubblica da più parti spingesse per il boicottaggio, si prodigò per andare a Berlino. I nazisti. Albert Speer, l'architetto di Hitler, fu incaricato di sistemare lo stadio di Berlino e lo ricoprì di marmo. Come un'enorme statua greca intitolata allo sport e agli dei ariani. E lo stadio olimpico è ancora lì. Hitler lo incaricò anche di costruire uno stadio a Norimberga da 450 mila posti. Rimangono le prove di enormi tribune su una collina. E Parigi. L'architetto girò Parigi con il Furher e si soffermarono davanti all'Opera. Per una serie di eventi miracolosi, quando i tedeschi abbandonarono la Francia, Parigi non venne toccata nonostante Hitler avesse ordinato praticamente di distruggerla. Grazie ad un generale che non obbedì agli ordini. Ma questa è un'altra storia.

L'inaugurazione fu mitologica. L'arrivo della fiaccola olimpica (che da quel momento farà sempre parte della storia delle olimpiadi), la scenografia di Speer, musica, la sfilata con gli atleti che salutano il Fuhrer che dichiara aperti i giochi e Strauss che dirige l'inno delle olimpiadi. Hitler non le voleva neanche le olimpiadi. Le ereditò dalla repubblica di Weimar, esempio di democrazia moderna finita in disgrazia. Ma fu convinto da Goebbels che gli mostrò gli enormi vantaggi in termini di visibilità: la perfetta organizzazione tedesca, l'occasione di mostrare al mondo la potenza ariana, la bontà con la quale si poteva far partecipare anche un'ebrea (nel fioretto, e vinse l'argento). E la Germania vinse più ori di tutti, coronando una speciale stagione sportiva.

Così si comincia. Leni Riefenstahl non era brava con gli sport di squadra e mandò il suo aiuto regista. In questo modo possiamo vedere la nazionale italiana vincere in finale contro l'Austria e i due allenatori stringersi la mano dandosi appuntamento ai mondiali del '38. Ma l'Austria non ci sarà, assorbita dalla svastica nazista. Oppure la finale di basket tra Stati Uniti (che non ebbero rivali in tutto il torneo) e il Canada. 19 a 8 il risultato finale per gli USA, sotto una pioggia torrenziale: si giocava all'aperto e su un campo di hockey su prato.

Il vero spettacolo fu però l'atletica leggera, questa sì la specialità assoluta della regista. E due atleti su tutti. Owens e Son. Jesse Owens era figlio di raccoglitori dell'Alabama. Emigrò insieme alla famiglia alla ricerca del sogno americano e approdò a Cleveland dove si fece notare per la straordinaria forza atletica. Gli offrirono borse di studio e finì per battere quattro record del mondo in 45 minuti. Nel viaggio in nave verso l'Europa, continuò a stare male. Ma una volta arrivato a Berlino, mentre si allenava su una pista nei boschi vicino alla città, si rese conto che era proprio lì che doveva stare. E rifiorì. Affrontò tutte le gare con la sua solita naturalezza, battendo record su record e facendo diventare folle Leni Riefenstahl che lo inseguiva continuamente con le sue inquadrature.

La gara di salto in lungo con Luz Long fu straordinaria. L'atleta tedesco era il prototipo dell'ariano. Ma fu subito amicizia. Long addirittura aiutò Owens che era ad un passo dal venir eliminato nelle qualificazioni. Poi fu battaglia. Vera. Sportiva. I due si battevano a vicenda. Poi Owens prese il sopravvento e vinse con salti che lo avrebbero fatto entrare nei primi dieci alle olimpiadi anche cinquant'anni dopo. Long morì in Sicilia, in guerra. Owens, dopo un tour catastrofico attraverso l'Europa, fu squalificato a vita per la sua rinuncia. Tornò a New York e nessun albergo accolse lui e sua moglie. In verità uno lo fece, ma dovevano entrare dalla porta di servizio. Roosevelt era troppo impegnato in campagna elettorale per riceverlo e gli rimase solo il saluto di Hitler che, secondo un'atleta italiano unico testimone, gli andò a stringere la mano. Le medaglie, sul fondo della sua borsa da viaggio, non erano contate niente.

E poi Son. Il maratoneta coreano che corse con la bandiera del Giappone. Giappone che aveva occupato la sua patria e aveva imposto la sua lingua e i suoi costumi. Anche lui fece un viaggio allucinante per arrivare a Berlino. E anche lui, arrivato là, si rese conto che era il posto in cui doveva davvero stare. La gara fu dura, come tutte le maratone, ma la sua corsa era libellulesca ed entrò allo stadio da solo. Quando vide un'enorme bandiera giapponese, addirittura sprintò. Di rabbia. E tagliò il traguardo. La cerimonia di premiazione fu tristissima per lui che continuava a sentirsi coreano. I greci lo acclamarono, il vincitore della maratona era un vincitore speciale per l'olimpiade. Ma non ci fu gioia. Gli diceva sempre il suo allenatore: "Corri giovane uomo e un giorno vedrai la tua corea libera". E così fu, anche a costo di anni di guerra e di una divisione dolorosa tra nord e sud. Poi tutto si sgretola. Dalla notte della cerimonia di chiusura. Lo stadio diventa una grande cattedrale di luce che piano piano si spegne. Venne cantato l'inno tedesco. E poi mille e mille voci gridarono "Heil Hitler". E poi fu buio veramente.

Rimasero solo le imprese di questi ragazzi di cui non si sa più niente perché fanno parte ormai della guerra. E il locale Berlinese, nonostante si voglia stare ancora un poco con questi eroi dello sport, piano piano si spegne anche lui. Con la bellissima canzone di Marlene Dietrich tratta proprio dall'Angelo Azzurro e Federico Buffa che si riveste e se ne va. Verso altri racconti, verso altre storie di sport.

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