Le parole per raccontarci
12 9 2021
Le parole per raccontarci

Francesca Mannocchi e Gaia Manzini in un dialogo sull'importanza di essere sé stessi

«È per gli altri che vogliamo essere perfetti, bellissimi, desiderabili. È dagli altri che cerchiamo approvazione. È l’altro che ci vede e vedendoci ci racconta. È l’altro a suggerire chi siamo. È lo sguardo, dunque, la gabbia?»

Ci sono libri che ci tolgono un peso, libri capaci di farci sentire in qualche modo un po’ meno soli. Sono libri come Bianco è il colore del danno e Nessuna parola di noi, che, in occasione dell’ultima giornata di Festivaletteratura, sono stati presentati dalle rispettive autrici, Francesca Mannocchi e Gaia Manzini, in un'intima presentazione al limite con la confessione.

Francesca è appena diventata madre quando scopre di avere una patologia degenerativa per la quale non esiste cura. È una giornalista che lavora anche in zone di guerra, viaggia in luoghi dove morte e sofferenza sono all’ordine del giorno, ma questa nuova, personale convivenza con l’imponderabile cambia il suo modo di essere madre, figlia, compagna, cittadina.

Ada, invece, ha ventisei anni ed è madre di Claudia, una bambina che ha avuto troppo presto. Mettere molti chilometri tra sé e Claudia sembra essere l’unica soluzione non solo per recuperare la giovinezza perduta, ma soprattutto per ritrovare le parole per descrivere sé stessa.

Due storie diverse che negli spazi di Festivaletteratura si incontrano per raccontare cosa significa costruire la propria identità sollevandola del peso dello sguardo altrui, uno sguardo che spesso ci deforma e costringe.

«Ada è una donna che non ha il racconto di sé. È una ragazza divenuta madre a diciassette anni che non è capace di dirsi madre» racconta Gaia Manzini «Lei subisce due sguardi: lo sguardo giudicante della società, che cerca di definire quelle che sono culturalmente le idee sulla maternità, e lo sguardo di Alessio, che le dà una restituzione, le dice che lei è brava e capace di fare qualcosa. In questo senso gli sguardi degli altri ogni tanto ci fanno rinascere»

Quella definizione di maternità imposta dalla società che vede il legame madre-figlio come qualcosa di viscerale, è quella con cui si è scontrata anche Francesca Mannocchi. «Credo che quello che si crea tra le protagoniste dei nostri libri risponda alla domanda: quando nasce un figlio nasce anche una madre? Non è detto, non sempre le due cose coincidono. Il problema è che può diventare corrosivo diventare madre e non rispondere ad un paradigma che non pensiamo sia un dato naturale, ma che è in realtà un dato culturale».

Una volta che ci si accorge di non riuscire, né volere, corrispondere al paradigma di madre che ci viene assegnato, è necessario intraprendere un percorso a ritroso per ricoprire sé stesse al di là dello sguardo altrui.

È questo il percorso che, in modi diversi, intraprendono le due autrici nei loro romanzi semi-autobiografici. Un percorso che riparte proprio dal loro essere figlie prima di madri, e dal primo sguardo che hanno ricevuto: quello dei genitori.

«Quando il libro è nato ogni parola si legava a un aneddoto della mia infanzia nella periferia di Roma» racconta Mannocchi «è diventato naturale per me partire da lì per raccontare un’epica famigliare. Mi sembrava interessante, mentre ripercorrevo la storia del mio corpo, ripercorrere la storia della mia infanzia in una famiglia».

«Io invece nasco in una famiglia di persone ordinarie che volevano essere straordinarie, in cui le radici erano state cancellate.» chiude Manzini «Forse è stato questo il motivo a spingermi verso Milano, una città che si rinnova continuamente. È un posto che in un certo senso non ti ancora, in cui sei proiettato verso tutto il possibile che hai davanti».

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