Le storie che contano
12 9 2021
Le storie che contano

Rebecca Solnit ci svela i meccanismi dell'oppressione: la gerarchia delle voci e il rimaneggiamento dei fatti

Facciamo un esperimento. Chiedete agli uomini della vostra vita se hanno mai conosciuto una ragazza vittima di violenza sessuale. Se, come accaduto a Rebecca Solnit, l'uomo in questione risponde di no, andate poi a leggere le percentuali e i numeri relativi alle aggressioni. Se i fatti vi sembrano stonare con la percezione che ne avete, non è perché i numeri siano sbagliati, ma perché le voci che li raccontano sono troppo flebili per farsi sentire. Oppure a volte, per la disperazione, se ne stanno semplicemente zitte.

In una democrazia tutte le voci dovrebbero risuonare allo stesso modo, come fosse un anfiteatro dall’acustica perfetta. Ma da questo punto di vista le società in cui ci troviamo non sono democrazie, in quanto non tutte le voci parlano allo stesso volume. Le voci delle donne, della comunità LGBT+, degli afrodiscendenti, delle persone con background migratorio vengono continuamente silenziate da coloro che preferiscono continuare a parlare da soli, perché sono abituati che la loro versione dei fatti sia sempre quella giusta. Quella creduta dalla Storia, dalla polizia e dalle istituzioni. Si crea così una vera e propria gerarchia di storie, di esperienze più o meno importanti, in cui chi è in cima vuole a tutti i costi mantenere la propria supremazia non solo schiacciando chi è in basso, ma anche togliendogli credibilità.

La Solnit procede con una grazia oratoria indescrivibile nell’alternare concetti di femminismo e critica culturale a commenti sulla storia recente degli Stati Uniti, ricordandoci ancora una volta che il femminismo è parte di una lotta più ampia contro l’oppressione di ogni tipo, che sempre comprende il silenziamento delle categorie in fondo alle gerarchie delle voci. Ci spiega che essere creduti è una forma di privilegio. Se con il movimento del #MeToo molte storie di donne sono finalmente state ascoltate, perché il loro stesso grande numero ha assunto la forma di una cassa di risonanza, non significa che la gerarchia sia stata smantellata. Al contrario, il trumpismo ha dimostrato che urlare ed essere violenti è ancora un modo molto funzionale per cambiare la realtà dei fatti ed essere ascoltati, se si appartiene a quel gruppo che storicamente ha detenuto il microfono e il potere di plasmare la realtà come fosse argilla. Il cambiamento climatico, la pandemia, i vaccini, perfino l’esito di un’elezione: tutti i fatti, anche quelli più univoci e scientifici, possono essere decostruiti da coloro che più di tutti sanno urlare, fiduciosi di essere creduti.

Come fare dunque a trasformare l’autoritarismo delle bugie in una democrazia di voci, se le menzogne degli urlanti sono arrivate perfino a dar forma alle istituzioni legislative? L’unica soluzione, ci dice la Solnit, è essere ribelli. La ribellione, ci dice ricorrendo alla filosofia di Hannah Arendt, non è per forza violenta, e anzi, in questo caso, consiste proprio nel non ricorrere ai mezzi violenti di chi urla a perdifiato. Il ribelle ideale è chi sa distinguere e che mantiene con forza la presa sui propri elevati standard di pensiero e vive sulla base di questa capacità di discernere il vero dal falso. Questo, dopotutto, è ciò che accomuna scrittori e attivisti, che scrivono e agiscono cercando di restare quanto più possibile fedeli a se stessi e alla propria capacità di ascoltare e comprendere davvero le narrazioni di quanto li circonda, distinguendo fatti e retorica, stile e trama. E allora, forse, dovremmo essere tutti un po’ più scrittori.

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