Maurizio De Giovanni e Elisabetta Moro su Napoli e le sue tradizioni
Come un cabaret di dolci ma in salsa napoletana, tra peperoni ‘mbuttunati, genovesi dai sapori mitologici e risate grasse come fantomatiche parmigiane di melanzane «che sono la prova dell’esistenza di Dio». Più, ovviamente, un doveroso excursus sul calcio.
«Io non è che non so cucinare, a casa mia non so nemmeno dov’è la cucina», afferma Maurizio De Giovanni, celebre autore napoletano, in dialogo Elisabetta Moro, condirettrice del Museo Virtuale della Dieta Mediterranea e docente di Antropologia culturale, Mitologie contemporanee e Tradizioni alimentari del Mediterraneo. L’incontro si sviluppa a partire da Napoli e da alcune delle sue ricette più iconiche, per andare poi a insinuarsi tra le pieghe della cultura partenopea.
Si parla della genovese appunto, un ragù bianco a base di cipolle – tantissime cipolle – a cui viene aggiunta poi carne di manzo. «La (pasta alla) genovese», dice De Giovanni, «è la condizione dello spirito». E poi prosegue: «Per la genovese si parte con un pentolone enorme di cipolle e quando prepari la genovese tutti sanno che la stai facendo. La genovese è una connessione, una comunicazione ufficiale».
Questa preparazione, con i suoi aromi peculiari, viaggia tra gli stretti vicoli di Napoli collegando le persone che li abitano, senza distinzioni di classe. L’area litoranea del capoluogo campano, analizza De Giovanni, è infatti la zona più densamente popolata d’Europa. A Napoli, per forza di cose, le persone sono sovrapposte: ceti sociali diversi condividono gli ingressi degli stessi palazzi, le stesse strade, gli stessi quartieri. In questo clima, la città vive sempre un tempo presente. «Non usiamo il passato remoto a Napoli, viviamo il presente con poca memoria e poca lungimiranza». È questo che De Giovanni individua come difetto della sua città: Napoli è un purgatorio tra l’azzurro del cielo e il rosso del magma rovente che scorre sotto la terra, tra il Vesuvio e i Campi Flegrei. E i napoletani – sempre secondo lo scrittore – sono le anime del purgatorio, fedelissimi che aspettano il miracolo, proprio come si attende il 6 al Superenalotto.
E a proposito di miracoli, c’è spazio anche per qualche parentesi pseudoreligiosa. La prima, sul ragù napoletano. Se per De Giovanni il ragù napoletano «è un allenamento, una questione fisica», per Moro (e per suo marito) sfocia addirittura nella teologia: «Il ragù napoletano non è una questione di cottura, è una questione di transustanziazione del pomodoro».
Infine, impossibile non citare Maradona. A Napoli, il murales del Diez è una delle attrazioni più visitate dai turisti. Le bancarelle sul posto vendono magliette contraffatte – «quelle della Napoli perenne, non di quella nuova» – e anche due anni fa, nell’occasione dell’ultimo s******* (parola che non può essere pronunciata), quella del Pibe de oro è stata comunque una delle più richieste. Nonostante la sua morte, la gioia che Maradona è stato capace di portare in città non ha avuto rivali. Un uomo che, pur con le sue fragilità, è stato accolto come un dio da centodiecimila persone allo stadio San Paolo.
A Napoli – conclude Moro – non si scherza coi miracoli: «Immaginate di vedere una persona malata che la mattina si alza guarita e dice che ha sognato Maradona. La fanno santa»!