Nessun manicomio al mondo è bello
6 9 2024
Nessun manicomio al mondo è bello

Racconti dal posto in cui sopravviveva la morte

Chi erano i matti? Chi erano i deviati o i malati? Difficile dirlo, poiché nell'Italia contadina dei primi anni del Novecento a essere rinchiusi nei neonati manicomi (il primo fu fondato nel 1904) erano diverse tipologie di persone, dall'alcolista alla ragazza che intrecciava più relazioni amorose. Tendenzialmente si trattava di devianze di ordine morale. Nel 1948 l'articolo 32 della Costituzione definì la salute come un diritto di tutti, ma per le persone con problemi mentali le cose non cambiarono granché, visto che la legge sui manicomi rimase in vigore fino al 1968. Esisteva, quindi, una cittadinanza di serie A e una di serie B, alla quale appartenevano i pazienti psichici.

(caricamento...)

Solo alla fine degli anni Sessanta, a distanza di vent'anni dalla promulgazione della Costituzione, si iniziò ad avvertire il cosiddetto disgelo costituzionale. Finalmente, lo Statuto iniziò a irrorare la vita delle persone nella realtà. Grazie all'intervento delle prime Amministrazioni di Centro Sinistra e soprattutto attraverso la figura del Ministro Luigi Mariotti, si introdusse una sorta di libro bianco, che raccontava cosa succedeva negli ospedali psichiatrici.

Sono pezzi di storia di una realtà che non esiste più, che ha riguardato tante città d'Italia, tra cui Mantova. A raccontarli è la storica Vanessa Roghi, davanti all'entrata dell'ex manicomio Dosso del Corso. Ad ascoltarla un gruppo di persone, in religioso silenzio, mentre calpestano il terreno dove sono passate centinaia di anime, internate per anni o per tutta la vita, senza conoscerne le motivazioni. Una visita emozionante e a tappe; un cammino silenzioso intorno all'edificio che ha vissuto tante storie.

Quanto svelato dal libro bianco era conosciuto solo da coloro che lavoravano nei nosocomi, come Franco Basaglia, che vi entrò per la prima volta nel 1961, senza mai esserci stato prima. Esisteva una netta differenza tra ricchi e poveri: gli psichiatri che operavano nelle cliniche, non conoscevano la vita dei manicomi, non ci entravano nemmeno per studiarli. Basaglia si ritrovò davanti a una drammatica realtà, che costituì lo spunto per una profonda riflessione. Iniziò a chiedersi quanto quel sistema fosse giusto e se potesse esistere un manicomio buono. In realtà, la legge Basaglia decretò che non poteva esserci un ospedale psichiatrico accettabile e che nessuno sarebbe stato più recluso in quelle strutture.

(caricamento...)
Iniziò così l'operazione di chiusura, un processo che venne avviato in maniera differente da provincia a provincia. Gli amministratori più sensibili cominciarono a esternalizzare i servizi, a portare sul territorio la cura della malattia mentale e psichiatrica, affinché non ci fossero più segregati. In altri posti, invece, si attuò una grande resistenza, al fine di mantenere tutto com'era.

«Ancora oggi, purtroppo, esistono luoghi che, sotto mentite spoglie, non sono altro che manicomi».

Il dottor Giovanni Rossi, uno degli psichiatri che ha operato nell'ex manicomio di Mantova, quando già era in vigore la legge Basaglia, narra dei primi cento pazienti che l'ospedale ospitò poco prima della sua inaugurazione. Arrivarono tutti a piedi e tra loro c'era Regina, che aveva 17 anni, colpevole di aver amato alcuni braccianti nei campi. La ragazza diventò donna senza mai più abbandonare la struttura. L'edificio rispettava i criteri stabiliti, affinché potesse essere un buon ospedale psichiatrico: era posizionato vicino alla città, con tanta aria e tante aree. Si costruì, quindi, una sorta di villaggio autonomo, con tutto ciò che era necessario e con una netta separazione tra il reparto femminile e quello maschile. Gli internati liberi di muoversi erano solo quelli definiti tranquilli. Gli agitati o i pazienti in osservazione rimanevano sotto stretto controllo. Rossi iniziò a lavorare in manicomio il 2 ottobre del 1978.

«Quando arrivai qui le cose erano già ben diverse e la legge Basaglia era in vigore. Chiesi subito chi fosse il malato più grave. Mi risposero che era Daniela, perché viveva in una camicia di forza ed era così autolesionista da riuscire a mordersi le spalle. Daniela è diventata una pittrice: ciò vuol dire che si è riusciti a liberarla e a consentirle, nei limiti del possibile, una vita dignitosa. Lei era una delle tre sorelle, tutte ricoverate, perché avevano subito violenze in famiglia».

Rossi è uno psichiatra che ha iniziato a lavorare avendo in mente che il manicomio si potesse cambiare. La legge Basaglia, quindi, non solo ha imposto la chiusura degli ospedali psichiatrici, ma ha consentito la cura delle malattie psichiche sul territorio: medici, infermieri e addetti, potevano recarsi dai malati o da coloro considerati tali, senza che questi fossero rinchiusi ed emarginati. Secondo don Roberto, uno degli infermieri del manicomio, nulla fu semplice.

«Gli stessi operatori che erano stati formati per la reclusione e per il contenimento, anche fisico, si trovarono in una situazione totalmente differente di lavoro: un conto era operare all'interno, con una gerarchia ben stabilita e rigida, un altro era andare fuori, dove ti recavi da una singola persona, in un altro contesto, che poteva essere la famiglia o una RSA. Gli infermieri che decisero di andare sul territorio lo fecero liberamente, mettendo a disposizione i loro mezzi, ma si ritrovarono a lavorare senza alcuna continuità tra quello che facevano fuori e quello di cui si occupavano dentro. Era urgente cambiare il manicomio, in maniera da adeguarsi alla presenza fisica sul territorio. Ancora una volta tornava la domanda: può esistere un manicomio buono?».

Un'illusione che durò fino al 1968, spiega il dottor Rossi, sino alla legge Mariotti. A Mantova, a un certo punto, gli internati erano 700, motivo per cui urgeva più spazio. Si colse l'occasione per progettare un buon manicomio e così nacque la clinica, una struttura tipica degli anni Sessanta, tutta su un piano: era il quarto reparto maschile. Si provò ad applicare una modalità curativa pulita e controllata, con un'idea di trattamento moderno, usando anche gli psicofarmaci. In realtà, la clinica durò ben poco, perché, ormai l'idea era proiettata fuori; bisognava andare dai malati, non trascinarli dentro.

Molti degli internati, dopo la chiusura delle strutture, furono costretti comunque a restarci, non sapendo dove andare. Una strada tutta in salita, ma che portò queste persone a contatto con il mondo e il mondo a entrare in quelle strutture, come dice Daniela Madella, riferendosi alle prime uscite dei ricoverati, al loro rapporto con l'ambiente esterno e alla possibilità di vivere momenti di vita normale. Passo dopo passo e con il grande sostegno di persone che ci credettero, venne creata la Cooperativa Speranza, di cui Daniela è socio fondatore, che fornisce i propri servizi al territorio coinvolgendo nelle squadre di lavoro persone con problematiche mentali e svantaggiate. Attraverso il lavoro, con un progetto personalizzato, cerca di favorire l’inclusione sociale di chi si trova in difficoltà, sostenendolo nella crescita delle proprie capacità professionali e personali. Una grande conquista che ha appena compiuto quarant'anni.

(caricamento...)
L'ultimo intervento è quello di Giuseppina, la cui mamma ha trascorso la vita in manicomio. Fu rinchiusa tre mesi dopo il parto con la diagnosi di caratteropatia e lì trascorse tutta la vita. Una testimonianza forte quella di Giuseppina, che conobbe sua madre nella sala di un ospedale, che ha vissuto in collegio, in quanto figlia di una internata e di NN (padre ignoto). Il percorso dei familiari di un malato psichico è molto difficile e per questo nasce l'associazione Oltre la siepe, con l'importante mission di abbracciare il dolore di chi soffre di disagio psichico e di chi gli sta accanto, di tenere accesa la lampada che illumina la via per il benessere mentale di tutti, di tessere una tela di relazioni.

(caricamento...)
A chiusura dell'incontro un collage di foto, alcune delle quali ritraggono momenti vissuti all'interno del manicomio, mentre altre sono portatrici di grandi speranze, a emblema del diritto alla vita, un principio basato sulla convinzione morale che un essere umano abbia il diritto di vivere, senza essere limitato da un altro.

Festivaletteratura