Il silenzio come cura nella poesia di Mariangela Gualtieri
Nella Basilica Palatina di Santa Barbara la gente entra, siede, aspetta. Chi si ritrova dopo un anno, chi ammira le pitture sulle pareti, chi legge: il tutto in uno sbattere di ventagli che rinfrescano l’ambiente. È questo il preludio al rito sonoro di Mariangela Gualtieri, e anche se lei non ne è direttamente la regista sa che l’attesa del pubblico appartiene alla sua esibizione artistica. Il suo non è né un concerto, né una lettura, né uno spettacolo teatrale ma un rito sonoro, ovvero una celebrazione del presente fatta di suoni, voci, silenzi. Ruvido umano è il titolo scelto, omonimo della sua ultima raccolta di poesie e titolo ben esemplificato dalla sua voce recitante grave e dolce allo stesso tempo.
L’incipit è il Sermone ai cuccioli della mia specie:
«Cari cuccioli,
vi ho guardato a lungo. [..]
intenerita da voi,
cari cuccioli della mia specie
a poi anche disgustata da voi
che eravate lì inermi a un palmo dal
mio naso».
L’appello a questi cuccioli di uomo e animale, pur manifestando tenerezza nei confronti della loro precaria leggerezza, dichiara in modo esplicito anche il disprezzo da essi suscitato. È questo il «ruvido umano» di Gualtieri, un giuramento nel quale convivono rabbia, amore e invidia. La poetessa si presenta sia come anziana autorità che sorveglia il mondo degli innocenti, sia come bambina che origlia i segreti degli adulti e li comprende come un «un filosofo senza le parole, un grandioso poeta analfabeta». Una delicata pietà regola questo rapporto di mutua scoperta: il vecchio conosce il piccolo, il piccolo conosce il vecchio, il primo sa cose che il secondo non ha ancora scoperto, il secondo sa che starebbe meglio se non le scoprisse mai. Crescere diventa dunque un appiattimento. Per smorzare tale inevitabile conseguenza, una possibilità è la violenza rivolta agli adulti. Le penultime strofe attingono proprio a quel bacino lessicale: sbranare, scassare, sputare, morsicare, scalciare, spaccare. La catarsi è resa possibile dal climax di un violino che accompagna la voce della poetessa fino alla liberazione finale: un invito a rimanere cuccioli, stare. Essere.
Le poesie seguenti richiamano la natura, sorella fidata della poetessa, ma anche le città a cui destina la sua esortazione urbana: un pulviscolo di atomi unisce il capriolo, la fontana, il pane e il caffè ed evoca l’umiltà necessaria alla celebrazione della vita.
«Il mio augurio è di preoccuparti e tremare
se pensi di essere migliore e ricordare
che l’ape, che il lombrico, che
anche la formica è più necessaria di te e di me
a questo verdeggiare della terra.
Ricordare che non sei migliore».
Le musiche, coordinate oltre che da Mariangela Gualtieri anche da Cesare Ronconi e il Teatro Valdoca, costituiscono l’ossatura lirica che modula le dinamiche di questo rito sonoro. Il violino, il crescendo di una musica incalzante, un coro sacro. E soprattutto i silenzi sapientemente concessi per consentire la rielaborazione delle parole in questo cortocircuito di significati che è la poesia.
Il mondo è malato e Gualtieri non lo nasconde. Il presente è spigoloso, i cadaveri infiniti, le teste malate e la burocrazia schiaccia i cuori e le giornate. Ma la cura è semplice: «basta fermare». Anche in assenza di parole, o forse proprio a causa dell'assenza di parole, la bellezza e lo splendore si palesano senza bisogno di decantarle. Sono semplicemente lì.
È la
«Meraviglia dello stare bene
quando le formiche mentali
non partoriscono altre formiche
e si sta leggeri come capre sulla rupe
della gioia».