La storia del secondo più grande impero della storia
Il giornalista Luca Misculin, firma di punta de Il Post, in virtù di un gusto tutto personale per la divulgazione storica, ha condotto il pubblico attraverso una panoramica generale sulla storia dei mongoli, popolo asiatico delle steppe di cui qui, per vari motivi, si tende a sapere troppo poco. La cosa, invero, non sarebbe giustificata: l’impero mongolo controllava circa il 20% di tutte le terre emerse e, nella storia, è secondo per estensione solo a quello britannico. L’Impero romano a cui tanto ci piace pensare come glorioso, enorme e assoluto, centro del mondo e della civiltà, era in realtà molto più piccolo anche al momento (pochi anni) in cui raggiunse la massima espansione, con Traiano e Adriano.
L’impero mongolo nasce nel 1206, quando un ragazzo di nome Temujin, meglio noto alla storia come Gengis Khan (il cui nome pare significare “capo oceanico”), riesce a unificare le tribù mongole che, pare, ebbero la loro prima origine nella regione della Manciuria, a nord della penisola coreana. Gengis riuscì a sottomettere l’impero cinese e a espandersi, a ovest, fino alle coste del Mar Caspio, dopo aver sconfitto anche l’impero corasmio, che si estendeva tra la Persia e gli attuali Turkmenistan, Afghanistan, Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan. Dopo la sua morte, l’impero fu di fatto diviso in quattro grandi aree, ciascuna sotto il controllo di un discendente di Gengis: Il Gran Khanato, centrato sulla Cina, l’Ilkhanato, a sud-ovest, che comprendeva l’odierno Medio Oriente, il Khanato Chagatai, in Asia centrale, e il Khanato dell’Orda d’Oro, all’estremo occidente, quello di cui forse si sente più parlare perché ebbe i contatti maggiori con l’Occidente. I figli e discendenti di Gengis proseguirono l’opera del grande condottiero e portarono sempre nuove terre nel grande dominio mongolo. L’impero raggiunse il suo apogeo nel 1279, anche se di fatto non era più unito sotto un solo sovrano.
Misculin passa quindi a raccontare qualcosa della società e della cultura mongola. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, i mongoli erano in realtà una popolazione di stirpe turca, che parlava una lingua altaica, la stessa famiglia, appunto, del turco moderno. Secondo gli storici poi questo grande impero aveva due pilastri: la libertà di movimento e la libertà di coscienza. I mongoli infatti erano molto aperti in materia religiosa e, prima di convertirsi in parte all’Islam per ragioni di opportunità politica, le loro credenze li spingevano verso una grande tolleranza verso le fedi dei popoli sottomessi. La loro religione era anche un grande stimolo a favorire la mobilità: più un individuo si impegnava a scambiare e far girare i beni, più sarebbe stato probabile reincarnarsi dopo la morte in un contesto sociale superiore. Anche in virtù di questo, all’interno dei domini imperiali si ebbe la cosiddetta pax mongolica: la possibilità, cioè, di viaggiare e commerciare per l’impero senza venire attaccati. Questa situazione di sicurezza fu quella che permise anche a Marco Polo di recarsi in Cina da Kublai Khan che, è bene ricordarlo, era un signore mongolo, per quanto la sua parte di regno si fosse fortemente cinesizzato.
Nelle fonti occidentali e islamiche invece i mongoli sono descritti in maniera terrificante. L’incontro con loro fu un trauma, perché essi erano qualcosa di molto diverso da quello che le civiltà più occidentali conoscevano: un popolo nomade, aggressivo, che voleva diffondere un’immagine di sé di spietato conquistatore. Dopotutto è vero. Grazie alla potenza e mobilità dei loro arcieri a cavallo, essi riuscirono a divorare enormi quantità di territorio in poco tempo, bruciando tanto la metropoli del basso medioevo, Baghdad, quanto la lontana Kiev, la cui devastazione è ben descritta nel racconto del viaggiatore umbro Giovanni da Pian del Carpine.
E non tutti sanno anche che probabilmente furono proprio loro a contribuire alla diffusione in Europa della peste nera del 1348, quella raccontata da Boccaccio nel Decameron: durante l'assedio che le truppe dell'Orda d'Oro stavano conducendo nel 1346 contro Caffa, grande fortezza commerciale genovese in Crimea, gli assedianti lanciarono dentro le mura i cadaveri dei morti. Da lì, grazie alle navi che tornavano in Europa, il morbo riuscì così a diffondersi, riducendo la popolazione del continente di almeno un terzo.