Perché proprio a me?
10 9 2022
Perché proprio a me?

La consolazione di Giobbe

Perché proprio a me? Quante volte abbiamo sentito questa domanda di fronte ad un dolore, di fronte alla sofferenza. Il libro di Giobbe parla molto umanamente di questo, della sofferenza del giusto. Ilenya Goss, pastora della chiesa valdese di Mantova, affronta il problema attraverso tre portali “letterari”: il testo biblico, una serie di quattro libri filosofico-scientifici e infine un romanzo. Tutti abbiamo udito il grido di Giobbe, che è poi anche il nostro grido disarticolato ripreso dal celebre quadro di Munch.

Se abbiamo letto il testo siamo entrati in assonanza con il dolore che trova sempre il modo di distruggere la vita. Il libro di Giobbe, scritto forse tra il V ed il III secolo A.C., fa parte della letteratura sapienziale. Sapienza come parte dello sviluppo umano che cerca di insegnare la saggezza. Il tentativo di comprendere la realtà per arrivare a gestirla. Questa saggezza ci dice che Dio è creatore buono, giusto e potente, che parla alla sua creatura e governa le sorti della storia. Questa idea si sposa quindi con la convinzione che il mondo è ben governato se ascoltiamo la voce di Dio.

Chi si comporta bene avrà un destino buono, chi si comporta male invece ne avrà uno brutto. Giobbe invece fa saltare tutto questo pensiero. Il testo rappresenta una presa di coscienza rispetto al dolore come esperienza dell’umano e, l’idea di Dio sviluppato nella parte sapienziale della Bibbia, cade di fronte a Giobbe. Un testo che grida a partire dall’esperienza reale dell’uomo. Giobbe inizia a parlare dal capitolo tre, e inizia con una maledizione. Un racconto che si svolge tra cielo e terra, un dolore che entra nell’esistenza, inspiegabile e irriducibile all’ordine del senso. Un dolore che ti viene addosso. Perché? Una domanda molto attuale. Il prologo si svolge in cielo con Dio circondato dai suoi “figli”. Tra i quali (e qui la traduzione comune purtroppo travisa il significato) il satana, non la personificazione del male, ma qualcuno che si oppone, che insinua dubbi in Dio: la creatura ti ascolta perché se ti ascolta tu lo premi; si comporta bene perché gli hai dato tutto.

Il satan distrugge quindi questa bella vita e Giobbe perde tutto, ricchezza, famiglia e salute. E Giobbe protesta. Mentre vive queste disgrazie non mette però mai in dubbio l’esistenza di Dio. Gli amici che gli rimangono, che rappresentano la sapienza, quasi lo rimproverano perché se sono successe le cose che sono successe è perché in fondo in fondo da qualche parte avrà sbagliato. Tutti siamo alla ricerca di un senso. Ma Giobbe non ci sta e chiede direttamente a Dio. Lui non ha davvero fatto niente per meritare tutto questo male (ritroviamo la stessa situazione e le stesse domande anche nel salmo 73).

Questo testo, questi argomenti, si riversano in moltissime altre opere. La storia si riversa nella letteratura, la sua interpretazione nella coscienza del tempo. Il rapporto tra Dio e l’uomo, la comunicazione tra i due protagonisti, la ricerca di senso. Superato il portale del testo vero e proprio, ci troviamo di fronte ora a quattro altri testi che cercano di spiegare. Il mito di Sisifo di Albert Camus parte dalla considerazione della sproporzione tra l’aspirazione umana alla felicità e una realtà in cui la gioia scompare e i cammini si perdono. Una sproporzione ontologica. Ma per Camus Dio non c’è, non è uno degli attori, non esiste trascendenza e ci si ferma all’orizzonte dell’umano. La vita è carica di dolore e nonsenso. La soluzione può essere il suicidio. L’arte e la religione sono solo scappatoie. Tutto si risolve immaginando Sisifo che guarda in faccia la realtà, rimane nell’umano e felice nel far rotolare il proprio masso fino in cima alla montagna, anche se poi sappiamo tutti che rotolerà e torneremo a spingerlo tutte le volte con lo stesso ripetitivo finale.

Forse un po’ come in Qoelet. Ne Il concetto di Dio dopo Auschwitz Hans Jonas mette in evidenza che un Dio creatore non è conciliabile con la Shoah, con il male assoluto che si è manifestato. Inoltre, non è possibile risolvere tutto con l’inconoscibilità di Dio. Perché Dio è un Dio che parla. Ma la creazione è reale perché Dio si è dovuto ritirare un po’, ha fatto spazio alla sua creazione. E in questo spazio ha preso posto anche il male. Dio ha rinunciato alla sua onnipotenza. Jung nella Risposta a Giobbe e Recalcati ne Il grido di Giobbe provano ad utilizzare la scientificità della psicoanalisi. Jung sconvolge l’idea di Dio, il satan è parte di Dio stesso e addirittura Dio impara da Giobbe l’ordine morale del mondo. È la protesta di Giobbe la vera giustizia. Psicologia del profondo, la parte in ombra è quella che custodisce il male, un gorgo che travolge e che è sempre presente nella creazione. Un fondo oscuro.

Recalcati conferma che il dolore acuto non ha senso ma può essere risolto dalla parola. Una parola che dà senso e ti porta fuori dal vissuto di male. Una parte del dolore comunque rimarrà sempre, il nonsenso rimarrà presente. Per colpa di essere nati e di essersi separati dall’essere. Sintomo irriducibile. L’ultimo portale ci riporta ad un romanzo. La risposta cercata attraverso una forma d’arte. Giobbe di Joseph Roth. Il grido inarticolato di Munch trova pace in un’altra forma di suono, non parole ma suono come musica, modalità di vivere che ci consente di dire qualcosa del nostro vissuto senza giustificare nulla. Dice e basta. Non è più grido ma comunicazione che rappacifica. Una porta aperta che lascia risuonare la musica.

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