Piste improbabili per rileggere le immagini
10 9 2015
Piste improbabili per rileggere le immagini

Carlo Ginzburg incontra Salvatore Settis

Televisione, computer, giornali, locandine pubblicitarie: ogni giorno siamo bombardati da migliaia di immagini e ne siamo diventati assuefatti. Paura, reverenza, terrore. Cinque saggi di iconografia politica, l’ultimo saggio dello storico Carlo Ginzburg, parla di questa nuova dipendenza. In un recente articolo per la Domenica del Sole24ore, Salvatore Settis ha definito i cinque saggi di Ginzburg “piste improbabili”. Piste improbabili come metodo di ricerca, nel senso di accettare la sfida, non rassegnarsi di fronte al dato per non essere passivi nell’indagine, e allo stesso tempo pista improbabile per raggiungere un fine ben preciso: educare all’immagine e alla sua decodificazione, per reagire in modo attivo al suo assedio. I cinque saggi raccolti nel libro sono stati presentati dall’autore e dallo storico dell’arte Settis.

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Sono testi che fanno saltare il lettore avanti e indietro nel tempo, seguendo il principio metastorico delle Pathosformeln, teorizzato a cavallo del Novecento dal critico d’arte tedesco Aby Warburg. Le Pathosformeln sono immagini archetipiche che ritornano in contesti diversi nel corso di epoche della storia distinte e discontinue fra loro. Come spiega la parola, queste immagini racchiudono due polarità: da un lato qualcosa di estremamente razionale, ripetibile, che diventa appunto forma, e dall’altro qualcosa di emotivo, profondo, viscerale.

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Ginzburg propone diversi esempi tratti dal suo saggio: primo fra tutti il famoso Guernica di Picasso che richiama nella morfologia un dipinto poco noto, conservato al Musée de Beaux Arts di Marsiglia, dal titolo La morte di Caio Gracco (François Topino-Lebrun, 1798). Soggetti diversi, identica composizione a fregio orientata a sinistra. Forse Picasso vide il quadro del Settecento nel 1908, durante una gita nella città francese in compagnia del collega Braque? Possibile, non dimostrabile, ma poco rilevante. Infatti, per Ginzburg non è necessario che Picasso abbia visto il quadro del francese Lebrun per subirne l’influenza, perché la forma prescinde sempre dalla storia e dal tempo. Se lo faccia geneticamente o per sopravvivenza e trasmissione di certe tradizioni è uno dei nodi fondamentali della questione, ancora tutto da sciogliere.

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Altrettanto tortuoso e altrettanto affascinante il percorso che conduce dal Salvator mundi di Antonello da Messina (databile al 1465-1475 circa) al manifesto di leva britannico di Lord Kitchener del 1914: in questo caso il gesto del dito puntato verso l’interlocutore è esemplare dell’ambiguità delle immagini, per cui sentimenti divergenti vengono espressi con la stessa gestualità.

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Anche questo, d’altronde, contribuisce a investire le immagini di un pathos che spesso invece le parole rischiano di appianare. Questa seconda “pista improbabile” apre la discussione a quello che Settis definisce uno dei più importanti fil rouge del saggio di Carlo Ginzburg: la tensione fra religiosità e secolarizzazione. Tensione che può essere vera e propria lotta in alcuni casi, o un lento processo di adattamento in altri. Ma anche qui bisogna chiedersi: è il potere secolare che invade in modo illegittimo l’ambito della religione o viceversa? Cristo era un filosofo ingiustamente mitizzato oppure la sua iconografia, associabile a quella degli antichi sofisti, è un tentativo pagano di discredito? Ancora una volta impossibile rispondere. E perché spesso, nella ricerca, la risposta arriva prima della domanda. Disabituarsi alla passività, accettare la sfida del dato e andare sempre più a fondo è il modo per non farsi sopraffare dalle informazioni e quindi dalle immagini.

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