Posta del cuore
1 10 2020
Posta del cuore

Messaggi e lettere dai volontari agli autori di Festivaletteratura 2020. Tra i destinatari Alessandro Barbero, Judith Butler, Francesco Costa e molti altri

Festivaletteratura quest'anno ha chiesto ai volontari di dichiararsi alla propria cotta letteraria o di chiedere un consiglio a uno degli autori che parteciperanno. Alcuni messaggi sono stati scelti per ricevere una risposta dai diretti interessati.

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Caro Francesco,

Grande Imperatore del Regno di Da Costa a Costa, Governatore di tutte le newsletter (anche quelle che non partono), cercatore instancabile dell’Ohio d’Italia, navigatore del mare burrascoso del giornalismo italiano, Pizia di tutte le campagne presidenziali, possiamo darci del tu? Spero non troverai offensiva questa mia confidenza.

Ti scrivo per chiederti consiglio e soprattutto perché ormai tutti i miei amici, parenti e persino conoscenti sanno chi sei e perché il tuo lavoro sia tanto interessante (ancora nessuno mi ha detto che non ne può più – buon segno). Scrivo una lettera perché dal vivo non avrei mai il coraggio di dirti queste cose. Quando incontro una persona che stimo mi tramuto nel perfetto prototipo della beota dallo sguardo imbambolato, incapace di articolare concetti complessi.

Vedi Francesco, per me il mestiere del giornalista è una faccenda dannatamente seria. È il mestiere più bello del mondo, è una vocazione, una pulsione vitale. Scrivere comporta una fatica fisica e mentale enorme. Raccontare è un lavoro da fine artigiano, è il cesellare incessante, lo scavare, l’inanellare una parola con l’altra. Per questo i giornalisti sono gli occhi del mondo e hanno sulle spalle una grande responsabilità: fare informazioni, non fare notizia.

Indagare, approfondire, raccontare, conoscere la materia di cui si parla, colmare quel divario fra quello che pensiamo di sapere e quello che sappiamo: tu fai tutto questo con passione e grande rispetto delle storie che racconti. Siamo fatti di storie dopotutto come ricorda Harari, ci nutriamo di narrazioni per costruire le fondamenta della nostra identità individuale e collettiva. Chi sceglie di dar loro voce ha sempre mille occhi e duemila orecchie a captare, come un animale selvatico, le correnti e i venti. Chi scrive non si ferma mai.

Solo a te dunque avrei potuto chiedere consiglio: come si diventa un bravo giornalista? E un bravo intervistatore? Quali trucchi hai scovato lungo il cammino?

Ti ringrazio se avrai la pazienza di leggere queste mie parole, chissà che un giorno – Audentes fortuna iuvat – potrò avere anche il piacere di collaborare con te.

Con inquantificabile stima,

Josette


Francesco Costa parteciperà agli eventi segnalati a questo link.

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«Bisogna innamorarsi non solo dei risultati, ma anche, e soprattutto, del cammino dello scrivere»: sono parole di Pablo d’Ors che ho avuto modo di ascoltare durante un accorato discorso tenuto in Università Cattolica di Milano in occasione del centenario della casa editrice Vita e Pensiero.

A questo proposito mi domando come sia possibile, per gli scrittori, bilanciare amore per i risultati – questi ultimi di certo attrattivi ma, in un certo senso, ingannatori – e amore per il cammino dello scrivere – ciò che davvero conduce ai primi e riempie il proprio cammino, dando un senso all’atto stesso dello scrivere. Come avere un equilibrio tra questi diversi fattori? Quanto conta l’amore per il cammino, per il fare materiale, per il processo, rispetto al fine che vorremmo raggiungere (la pubblicazione, la notorietà ecc.)?

Un’ulteriore domanda nasce da una personale riflessione a seguito dell’intervento di Pablo d’Ors in Università: «innamorarsi del cammino» non vale forse anche nella quotidianità, non è un monito per la vita? In una società sempre più tesa ai risultati, ai premi, al successo, rischiamo di perdere di vista l’unico elemento che possediamo: l’oggi, l’adesso, quello che stiamo facendo in questo preciso istante. In questo senso, come “tornare” al momento presente, prestandogli la dovuta attenzione, senza l’ansia per ciò che sarà o la nostalgia per ciò che è stato?

Viaggiatore instancabile, Pablo d’Ors ha raggiunto a piedi Santiago de Compostela, attraversato il deserto del Sahara e soggiornato sul monte Athos. Mi viene spontaneo chiedermi quanta influenza abbiano avuto questi cammini nella vita del sacerdote madrileno e quanto siano legati alla sua stessa idea di scrittura.

Noemi


Quest'anno Pablo d'Ors ha partecipato ad Almanacco.

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Cara Michela Murgia,

mi chiamo Georgiana e con un santo patrono come San Giorgio, che affrontò draghi e liberò principesse, i miei genitori hanno immaginato un futuro glorioso per me. Io di draghi ne ho visti tanti, ma nessuno con squame o sputafuoco, piuttosto malelingue che mi hanno discriminato per la mia origine, oppure occhi prepotenti sul mio corpo di donna. Ti scrivo perché ho bisogno di un consiglio per affrontare una nuova sfida, un nuovo drago: l’ignoto. Ho finito i miei studi e non ho nulla in mano se non tanta speranza e una inspiegabile foga di fare e dimostrare al mondo che valgo. Negli ultimi mesi, proprio sulla scia di questa ansia, ho percorso tante strade ricevendo numerosi no. Ho paura dell’ignoto, ma continuo a muovermi, perché, come dice un detto arabo, “il movimento è una benedizione”. So che a venticinque anni non posso pretendere di aver completato il puzzle della mia vita, ma cercarne almeno la cornice è così tanto sbagliato? Come faccio a illuminare la buia via della principessa persa che vive dentro di me?

Grazie prima ancora di sapere se leggerai queste parole.

Georgiana


Michela Murgia sarà presente agli eventi segnalati in questo link.

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Non è mai stato difficile attirare la mia attenzione sulla materia storica. Da piccola, uno dei miei grandi eroi era Camillo Benso, conte di Cavour. Già, non Superman, non Batman, e nemmeno il palestrato Big Jim attraeva la mia attenzione, ma quel panzone impostato di Camillo. Oggi non ricordo esattamente cosa ci trovassi di così affascinante, probabilmente la capacità di aver manovrato con tanto charme il destino di un Paese, il suo saper arrivare esattamente dove voleva, quel comparire un po’ ovunque: piazze, vie, corsi. Insomma, la Storia, quella con la S maiuscola è sempre riuscita a entrare facilmente nel mio immaginario. Ho sempre pensato che in qualche modo mi riguardasse, che custodisse un pezzetto anche della mia di storia, un po’ come una nonna.

Mi rendo conto di essere stata una bambina atipica, in un certo senso. Ho realizzato nel tempo che non è così per tutti e che, anzi, assai spesso la Storia resta fuori dalle storie. E l’ho capito anche di più oggi, in quei momenti di ansia da prestazione in cui mi trovo in una classe di adolescenti che già, nella mia brevissima carriera da insegnante, mi hanno domandato più volte: “ma perché dobbiamo studiare quello che è successo a ‘sta gente? Sono tutti morti”.

Mi divincolo, immagino come tutti, tra risposte attinte dalla grande tradizione, cose del tipo “perché quello che è successo deve servirci da monito”, “perché nella Storia accede quello che accade nelle nostre vite: si riesce a crescere solo quando diventiamo capaci di imparare dai nostri errori”, “perché non potremmo mai riuscire a capire il nostro presente senza conoscere le nostre radici, voi sareste certamente diversi se foste nati in un qualsiasi altro posto del mondo», o ancora, «perché la storia è magistra vitae”, per le classi più reazionarie! Tuttavia, il più delle volte e soprattutto con la gran parte degli studenti, riesco a farli appassionare solo quando ai dati storici mescolo pettegolezzi, gossip, curiosità (ho avuto una classe a cui di tutto il Risorgimento è rimasta impressa solo la cugina di Cavour, usato come “dono persuasivo” verso Napoleone III).

Eppure, se nelle aule succede questo, sul web c’è Alessandro Barbero che riesce a fare anche novecentomila visualizzazioni parlando del Medioevo. In quarantena, tra i docenti di lettere, era tutto un “c’è quel podcast/video di Barbero che potrebbe essere perfetto da caricare su Classroom”. Avevamo a disposizione un repertorio accattivante e funzionale, pensato quando ancora la didattica a distanza non era una necessità. Barbero ha colto, forse in maniera del tutto spontanea e naturale, la necessità di cambiare canale, di parlare ai ragazzi con altri mezzi, con un’altra enfasi.

Se avessi la possibilità di far leggere questa lettera ad Alessandro Barbero gli chiederei uno spunto per essere pronta a rispondere all’annosa e intramontabile domanda dei ragazzi sul senso della storia, sulla sua rilevanza nel repertorio delle loro conoscenze; ma gli chiederei soprattutto come si fa a far diventare la Storia “pop”, perché si sa, si studia più facilmente ciò che si ama. Come si rende la Storia una materia viva, anche quando è più lontana? Come si accendono quelle scintille che portano a pensare che la Storia riguardi ogni storia, che il suo apprendimento sia realmente significativo per la nostra coscienza e la nostra crescita, come cittadini e non solo? Sicuramente, quello di molti insegnanti (me compresa, probabilmente) è un deficit di narrazione, un racconto storico che non sa parlare la lingua degli ascoltatori, che non sa gestirne i canali; ma forse è un gap possibile da recuperare, se c’è ancora chi sa farne materia di tendenza nei social!


Alessandro Barbero parteciperà agli eventi segnalati a questo link.

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Sono sempre stato refrattario alla poesia, nonostante i vari stimoli presenti nel mio ambiente famigliare e nel mio percorso accademico. Non è un problema di mancato apprezzamento, al contrario: di fronte all'icasticità di un testo poetico mi innervosisco perché non riesco a capirlo. Solo recentemente mi è capitato di affacciarmi con un interesse più genuino e comprensivo alla sostanza poetica, e questo lo devo a te (ti do del tu perché ai poeti non si dà del lei). Il tuo Monologo del non so ha scoperchiato territori che nessun romanzo prima mi aveva mai illuminato. Te ne sono grato. Solo recentemente mi sono cimentato anche con Bestia di gioia. L'ho comprato alcuni giorni fa. È una "contrada misteriosa" che mi invita all'esplorazione. Stamattina poi ho scoperto che saresti venuta al Festival. Quindi ho deciso di dichiararmi.

Prima di concludere avverto una forte esigenza di porti qualche domanda. Vediamo. Mangi carne? Hai mai meditato secondo la tradizione orientale? Ti fai docce fredde? Controlli spesso l'ora? Digiuni? Quante ore dormi a notte?


Mariangela Gualtieri parteciperà agli eventi segnalati a questo link.

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Care Judith e Maura,

Rifletto da più di un anno sulla visione performativa dell’identità, che pone le basi della teoria queer in Gender trouble. Le identità non sono “essenze” - innate, fisse e immutabili - ma vengono costruite attraverso la ripetizione di performance. Che le identità siano un qualcosa di concreto è un’illusione ontologica, retta appunto da performance continue. In tal senso, l’identità femminile o maschile è data non solo e non tanto dal sesso biologico, quanto dall’adesione a una serie di comportamenti riconoscibili come tipicamente femminili o maschili. Un esempio banale è l’azione di indossare una gonna, talmente caratterizzante dell’identità femminile da essere usata per distinguere con figure stilizzate il bagno destinato alle donne. Mentre la visione essenzialista ha conseguenze di normalizzazione, nel senso che stabilisce leggi e regole che orientano la nostra percezione della normalità, l’ideologia queer ha un potenziale liberatorio quanto disorientante.

L’approccio al punto di vista queer ha avuto in me e nella mia visione del mondo un effetto prorompente, e se da un lato mi è sembrato di poter ottenere una spiegazione valida a molti dei miei “perché?” sul sistema sociale in cui viviamo, di sentirmi meno in gabbia, dall’altro lato il non credere più all’identità con fede essenzialista mi fa chiedere cosa c’è oltre le performance che definiscono le nostre identità sociali. Vorrei porvi per questo alcune domande aperte che girano attorno alla questione che più mi sta a cuore. Cosa significa secondo l’approccio delle teorie queer “cercare se stessi”? Esiste un “vero io” alla base delle nostre scelte, benché queste siano spesso pilotate da condizionamenti sociali? Se l’identità è frutto della ripetizione di performance, cosa significa essere autentici? Che valore ha e quanto è desiderabile il paradigma dell’autenticità all’interno del nostro gruppo sociale che Gancitano e Colamedici hanno definito la “società della performance”? Com’è possibile conciliare la visione performativa dell’identità con la ricerca della propria vocazione (parola chiave cara a Maura che su questo tema tiene workshop e lezioni)? Spero possiate aiutare me e chi è avvolto dalle stesse domande ad avere strumenti per cercare risposte e porsi problemi nuovi, diversi.

Eleonora


Judith Butler e Maura Gancitano parteciperanno agli eventi segnalati a questo link.

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La prima volta che ho sentito parlare di Stefano Liberti è stato tempo fa, quando ero ancora una studentessa di giornalismo e cultura editoriale. Mi ero riproposta di iniziare presto le ricerche necessarie per scrivere la tesi, e bene o male avevo individuato la macro area di interesse: cibo e sostenibilità. O meglio, cibo e metodi di produzione insostenibili. Parlando con il relatore, tra i libri consigliati per la lettura spuntava I signori del cibo, di un certo Stefano Liberti. Non ero del tutto estranea al tema, ma I signori del cibo ha fatto da ponte, collegando quello che già sapevo ad una prospettiva più ampia sul sistema produttivo mondiale. Da allora ho letto molti altri suoi libri, sempre affascinata da quella prosa facile ed efficace.

La stima per Liberti è doppia anche perché svolge la mia professione ideale, ovvero divulgare facendo quello che amo fare: scrivere, parlando di qualcosa che mi sta a cuore. Se potessi far arrivare questa lettera a Liberti prima di tutto lo ringrazierei, perché mi ha “insegnato” più di tanti professori. In seconda battuta gli chiederei sicuramente “come”. Come si fa ad entrare nel mondo della divulgazione scientifica, parlare di sostenibilità, senza un background scientifico. Pur avendo accumulato in questi anni delle conoscenze specifiche riguardo al tema, ho molta paura nell’espormi e mettere nero su bianco le mie idee e le mie conoscenze in merito a queste tematiche, anche perché spesso il cambiamento climatico tocca delle materie della cosiddetta hard science, da me abbandonata senza tanti rimpianti all’ultimo anno di liceo. Il secondo come riguarda la sfera della motivazione, che in quest’ultimo anno e mezzo è venuta un po’ a mancare - e che il lockdown ha ufficialmente e definitivamente ucciso. Ho partecipato come organizzatrice e come spettatrice a festival dedicati alla sostenibilità e nonostante Greta, nonostante i reclami e il greenwashing di praticamente ogni brand del mondo della moda, il mondo continua ad andare a fuoco. Letteralmente. Quindi la mia domanda, molto banale ma estremamente personale è come continuare a fare divulgazione nonostante il mondo sembri non essere interessato, come interessare e portare un cambiamento, piccolo o grande che sia, per combattere questa lotta contro il tempo che è la mitigazione del cambiamento climatico.

In questi giorni di sconforto, mi basterebbe capire come convincere mia madre a fare una differenziata come Cristo comanda.

G.F.

P.S. Liberti, se stai leggendo sappi che penso a te ogni volta che vedo del tonno pinne gialle in scatoletta. Non è l’associazione mentale più bella, ma sono sicura che ti rimarrà impressa; in questo modo anche tu avrai un ricordo di me. La pazza del reparto dei prodotti in scatola.


Stefano Liberti parteciperà agli eventi segnalati a questo link.

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Carissimo professor Barbero,

Verrebbe a parlare nel paese dove abito? La seguo da molti anni e grazie ai suoi interventi e ai suoi libri ho potuto approfondire molti aspetti della storia della nostra società. Credo infatti che tutti dovremmo conoscere meglio da dove veniamo per poter capire chi siamo e dove vogliamo andare. Che sembra tanto una frase di Guzzanti quando faceva il “santone”, ma non si discosta molto dalla realtà. E poi il suo monologo sui Barbari che ho ascoltato lo scorso anno nel bellissimo foro di Velleia Romana. So bene che il passato non può tornare tale e quale e ogni epoca storica ha le sue particolarità irripetibili. Ma quanto servirebbe sentire ancora come si è sviluppato il concetto di “barbaro”, come è stato gestito, vissuto e subìto da Roma imperiale e così via fino ad arrivare ai giorni nostri. La globalizzazione poi? Demonizzata dai soliti, ma presente da sempre nella storia delle civiltà. Il medioevo? Sicuramente non il periodo buio che tutti abbiamo sempre immaginato. E così via, attraverso battaglie, assedi, invasioni, espansioni, commerci, viaggi e scoperte. Non servono davvero i romanzi e le fiction, alle quali ormai siamo purtroppo abituati, per rendere fantastico il passato che attraverso milioni di racconti si rende tanto presente. Chi meglio di lei riesce a rendere reali queste storie? Un’altra frase molto abusata è “viviamo in tempi davvero bui e pericolosi”. Ma purtroppo è anche molto vera. E solo la cultura può vincere pulsioni e diffidenze. I suoi racconti possono vincere luoghi comuni e idee sbagliate. Quindi, per tutto questo e molto altro ancora, verrebbe a parlare nel paese dove abito?

P.S. Tra l’altro sarebbe l’occasione giusta per mia mamma di sentirla dal vivo. Anche lei è una sua grande fan.


Alessandro Barbero parteciperà agli eventi segnalati a questo link.

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Cara Monika Bulaj,

Devo scriverti perché il tuo lavoro mi entra nella pancia. Dicono che nell’intestino si trovi un secondo cervello: un insieme di microorganismi che influenzano direttamente emozioni e comportamento. Ecco, io le tue fotografie e le storie che racconti le sento proprio lì. E me le immagino, queste molecole che viaggiano fino al cervello, passando attraverso il mio corpo, scuotendolo e scombussolandolo, e solo una volta su, nel cervello, io capisco cosa provo.

Li chiamano gut feelings - letteralmente “sentimenti delle budella” - e dicono che non si riesca a dar loro un nome, ad associarli univocamente ad un’emozione prima che arrivino alla corteccia cerebrale. Me lo immagino un po’ così, il tuo lavoro: partire con la testa piena di sensazioni, tornare con emozioni un po’ più cariche di significato, un po’ più raccontabili, ma solo con il linguaggio della fotografia. Perché è attraverso la verità intrinseca delle immagini che produci, che noi esperiamo emozioni tanto forti.

Penso che le fotografie, a differenza del linguaggio, non incanalino la nostra prospettiva verso il pensiero dell’autore, ma anzi suggeriscano, delicatamente, un’angolazione da cui si può guardare il mondo. Le tue immagini sono un corpo nudo, svelato per il momento di uno scatto.

Pensavo alle tantissime persone che incontri, e credo ci voglia coraggio e sensibilità per mettersi in cammino. In una recente intervista, parlando delle cose che accomunano gli esseri umani, hai detto che «Il corpo è un veicolo di preghiera che contiene la memoria collettiva, e svela l’appartenenza a una grande famiglia umana». So per certo che riconoscersi nell’altro è fondamentale per capirci tra esseri umani. Di fatto, il corpo, pur nella sua diversità, è universale, e contiene tutto ciò che siamo. Mi piace pensare a questo cerchio che si chiude: tu guardi i corpi e ne fotografi le emozioni, io guardo le tue immagini e le sento nel mio corpo.

Forse la memoria collettiva passa anche da questo, i fatti si dimenticano, ma non dimentichiamo le emozioni e le sensazioni che abbiamo provato. «Le prostrazioni, il modo di danzare, muoversi nello spazio. Il cammino, anche la transumanza dei nomadi» sono meraviglie che ci rendi disponibili attraverso il tuo obiettivo.

Monika, tu sei la mia crush letteraria, e nemmeno così letteraria, perché mi fai storcere la pancia e rivoltare tutti i microrganismi dentro. E li sento proprio!

Marina


Monika Bulaj parteciperà agli eventi segnalati a questo link.

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Donna che ci hai narrato i cuori assenti
e delle sparizioni hai raccontato
degli organi di esseri viventi
che restano viventi in quello stato,
e di quell'uomo che i legami ardenti
non ha tutta la vita meditato
e ha preferito i mitici tormenti
che dare vero cuore a un cuore amato,
ecco cos'è scoppiato
dentro al mio cuore vivo
ch'è sempre molto attivo:
d'un battito costante è stato preso,
e tu me l'hai rubato e non l'hai reso.

Donna che stringi in mano gli integrali,
e iperboli e fattori e le radici
e limiti e prodotti incrementali
e i logaritmi tratti come amici,
e credi che saremmo tutti uguali
e tutti pure un po' meno infelici
se quando ragioniam dei nostri mali
seguissimo più razionali auspici,
tu queste cose dici;
e io prendo a tremare,
ché io non so contare
questi tremori infiniti che sento
in questo incalcolabile tormento.

Canzone, va' a cercarla,
e non parlar con Franco
né col cinghiale bianco:
non creder troppo in te, ché sei un'inezia,
ma cerca lei fra i calli di Venezia.

Centaura


Chiara Valerio parteciperà al Festival negli eventi segnalati a questo link.

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Cara Michela Murgia,

Le scrivo per dichiararLe il mio amore incondizionato. No, scherzo. O meglio, in realtà non scherzo, provo dell’amore incondizionato verso ciò che scrive, ma il confine tra questo amore e altri amori è così labile da meritarsi un bel disclaimer piazzato lì per evitare che Lei smetta di leggere questo messaggio dopo due righe pensando che si stia interfacciando con una pazza.

Il mio problema, e il motivo per cui le scrivo, è proprio questo. Soffro di una congenita incapacità nel distinguere la persona da ciò che scrive. Ma non Le scrivo affinché Lei mi curi. In realtà non c’è nessuno meglio di Lei che può spiegarmi come sfumare definitivamente questa linea a matita, Lei che ha sempre vissuto la vita come fosse letteratura e la letteratura come fosse vita. È una cancellazione potenzialmente dolorosa, un abbandono delle certezze, ma come quando si fa uno schizzo di un paesaggio, arriva un momento in cui le linee a matita vanno cancellate, o non ci si capisce più niente. Mi regali la chiave del suo orgoglio di scrittrice, la sfrontatezza con cui tutti i segni assumono un senso e scorrono attorno al nucleo della persona con direzioni precise, anche se sconosciute.

So di non chiedere poco. Secoli di saggezza femminile concentrati in un’esistenza orgogliosa. Ma forse, l’esempio basterà.

Grazie.

Marta


Michela Murgia sarà presente agli eventi segnalati in questo link.

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A Chiara Valerio

Chiarita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi, ossigeno dei miei polmoni. Mio peccato, anima mia. Chiarita: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato, per roteare, al secondo, delicatamente, sfiorando gli alveoli e battere, al terzo, contro i denti. Chia-Ri-Ta.

Era Slater, semplicemente Slater al mattino, ritta nel suo panciotto e con i suoi tondeggianti Theo sul viso. Era Lady Oscar in pantaloni. Era l’intellettuale alle presentazioni di libri. Era Chiara Valerio sulla linea tratteggiata dei documenti. Ma tra le mie braccia era sempre Chiarita.

In verità non ci sarebbe stata forse nessuna Chiarita se un’estate io non l’avessi amata inizialmente in una Storia umana della matematica. Tutt’a un tratto mi innamorai pazzamente, goffamente, spudoratamente, tormentosamente e senza speranza dovrei aggiungere, perché l’unico modo di placare quella frenesia di possesso sarebbe stato assorbire, assimilare sino all’ultima particella lo spirito e la carne delle pagine di carta.

Accade a volte che talune scrittrici rivelino a certi ammaliati viaggiatori la propria vera natura, che non è umana: la grazia arcana, il fascino elusivo, mutevole, insidioso e straziante distingue la grande, micidiale scrittrice da tante sue scialbe coetanee. Bisogna essere artisti e pazzi, creature di infinita melanconia, con una fiamma ipervoluttuosa perennemente accesa nella spina dorsale per discernere a prima vista, grazie a segnali ineffabili, la maestria della scrittrice tra le pedanti scribacchine.

Composi un’e-mail per le ciglia nere come fuliggine di quegli occhi pieni d’un grigio pallido e per quel dentino storto del suo dolce sorriso, i capelli corti di un castano scuro e le labbra sottili. Del resto, Chiara Valerio non è la fragile fanciulla dei romanzi rosa. Quello che mi fa impazzire di lei è la doppia natura, questo miscuglio, nella mia Chiarita, di un’infantilità tenera e sognante e di una sorta di raccapricciante volgarità che discende dagli anni Novanta. Tra alto e basso, tra sovraumana intelligenza e cultura pop, si divincola la sua scrittura.

Ma ciò che avevo follemente posseduto era una mia creatura, una Chiarita di fantasia, forse ancor più reale della stessa Chiarita; qualcuno che le si sovrapponeva tra le righe e nel testo la inglobava. Qualcosa che aleggiava tra lei e me: parole, nomi e numeri e ricordi e amori amati e non corrisposti. Sapevo di essermi innamorata di Chiarita per sempre; ma sapevo anche che la parola «per sempre» mia intima e smodata passione da lettrice, a quell’eterna Chiarita che si rifletteva nella mia mente.

Ma vedete, io l’amavo. Era amore dalla prima all’ultima pagina, fino alla quarta di copertina, e spero che un bacio all’ultimo minuto sottolinei il profondo messaggio di questa romantica ilarotragedia; e cioè che fantasia e realtà si fondono in noi nel nostro amore più folle. Timide ora si fanno le parole arrossendo, sussurrando tra loro il mio palese segreto. E così alla fine quello che non avrei potuto dirti, Chiara, mia amata, ti ho detto.

Con affetto,

Per sempre Tua Alice

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Chiara Valerio ha risposto su Twitter! Ci saranno lettere anche per Michela Murgia?


Chiara Valerio parteciperà al Festival negli eventi segnalati a questo link.

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