Raffaello in guerra
12 9 2020
Raffaello in guerra

Una storia di resistenza italiana

Esistono guerre invisibili, impercepibili, che sfuggono. Che si combattono silenziosamente, di notte, a fari spenti. Stefano Scansani raccoglie una delle tantissime storie di resistenza culturale e racconta a Festivalettura di quella volta che, nel luglio del 1944, Raffaello se ne andò in guerra.

Facciamo una premessa, partendo da Picasso: «la pittura [e l’arte tutta] non è fatta per decorare gli appartamenti. È uno strumento di guerra offensiva e difensiva contro il nemico». Non solo, è anche un territorio ideale di guerra, su cui si scontrano interessi e pretese di ius predae, smanie personali (come quelle di Hermann Göring, il più grande razziatore d’Europa) e ambizioni di un’intera nazione (come dimenticare il progetto del Führermuseum a Linz?). L’arte, dunque, non ha mai lasciato le scacchiere belliche, come ci ricorda Scansani in un’ottica glocal accostando fotografie di Dresda e Bologna bombardate alle distruzioni di Palmira nel 2015.

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La storia dell’Estasi di Santa Cecilia di Raffaello (1515) e della sua evacuazione dalla Pinacoteca Nazionale di Bologna è quella di una «grande veterana» che è già sopravvissuta a secoli di brame, persino allo staccamento della pellicola pittorica dalla sua tavola originaria nel corso delle spoliazioni francesi. Il suo itinerario verso il rifugio di Villa Cavallini, sul Lago Maggiore, deve attraversare per forza la Pianura Padana e le linee nazi-fasciste, in una sarabanda di bombardamenti e distruzione. A coordinare questo sfollamento artistico sono Francesco Arcangeli e Gian Alberto Dell’Acqua, entrambi storici dell’arte, il primo di Bologna, il secondo in servizio alla Pinacoteca di Brera. La loro opera di resistenza e salvaguardia è a dir poco ostica: non si tratta solo di affrontare pericoli e difficoltà materiali, ma di catalogare e - dolorosamente - selezionare solo quelle opere che è fondamentale evacuare. Nel camion Fiat da traslochi guidato da Dell’Acqua si accompagnano alla Santa Cecilia raffaelliana poco più di trenta opere: un polittico giottesco, dipinti di Guido Reno e Parmigianino, una spada di papa Niccolò V, l’affresco con Sigismondo Pandolfo Malatesta in preghiera di Pietro della Francesca, staccato nottetempo dal Tempio Malatestiano di Rimini e trasferito su un supporto grazie a un collante artigianale composto da grana, latte e uova.

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Rimboccati i dipinti con coperte militari, l’improbabile veicolo si mette in viaggio e procede a fari spenti, seguendo una traiettoria a zig zag verso nord, passando Marzabotto, Bologna, Carpi. L’unica direzione possibile è quella di Mirandola, perché a Revere è rimasto un unico ponte in piedi sul corso del Po. Tutti i timori di Dell’Acqua si realizzano la notte stessa dell’arrivo in città: il ponte viene bombardato e danneggiato irrimediabilmente, mentre il camion da traslochi si ritrova circondato dai panzer tedeschi.

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Due incontri determinano il successo della missione e il salvataggio di Raffaello: il gruppo di Dell’Acqua non viene circondato da una sezione nazista casuale, bensì da alcuni componenti del Kunstschutz, guidati da un ufficiale austriaco a sua volta storico dell’arte, che permette loro di proseguire. Una volta passato il Po, Dell’Acqua fa un secondo incontro decisivo: in quel momento si trova di stanza in Lombardia Percy B. Cott, membro dei Monuments Men a cui si devono le strutture protettive che circondano L’ultima cena di Leonardo.

Scansani ricorda la conclusione del viaggio raffaelliano come una storia straordinaria tra tante storie straordinarie, esemplificative di una resistenza nazionale che non soccombe né si piega mai alla distruzione e all’indifferenza, a quell’infausta invettiva di Mussolini che anticipò le sue politiche di non-salvaguardia del patrimonio artistico: «questo popolo di esteti! L’arte ha invigliacchito gli italiani; preferirei meno statue e meno quadri nei musei, e più bandiere strappate al nemico».

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Sulle sponde del Lago Maggiore, nel luglio del 1944, Santa Cecilia trova salvezza e quiete, in estasi nell’ascolto di melodie divine, mentre calpesta non solo gli strumenti musicali del mondo terreno, ma anche queste rovinose parole che negano una sensibilità nazionale innata, preistorica. Perché Raffaello aveva già trovato un antidoto per questa distruzione fatta di razzie e indifferenza 501 anni fa, «perché come dalla calamità della guerra nasce la distruzione e ruina di tutte le discipline ed arti, così dalla pace e concordia nasce la felicità a' popoli, e il laudabile ozio per lo quale ad esse si può dar opera e farci arrivare al colmo dell'eccellenza».

Festivaletteratura