Sperando di non restare in banca tutta la vita
9 9 2022
Sperando di non restare in banca tutta la vita

D'Alessandro, Prete e Piccinni discutono dell'epistolario di Montale e Solmi

«Ciò che è nostro non ci sarà tolto mai» sono le parole scritte da Eugenio Montale a Sergio Solmi, che così descriveva il ruolo della letteratura nella loro vita, a dispetto di ogni congettura storica e della «nequizia dei potenti». E così mostrava la sua ammirazione per Solmi, che considerava più fermo di sé: «io meno la solita porca vita che puoi immaginare» lamentava intanto, mostrando un fondo inconsolabile, a dispetto della consapevolezza di una cultura comune.

Con la lettura della lettera da cui sono tratte queste frasi si apre l’incontro fra Francesca D’Alessandro e Antonio Prete, con Daniele Piccini. L’evento presenta l’edizione critica dell’epistolario fra i due intellettuali, a opera di D’Alessandro, cui proprio quella frase dà il titolo.

Dal 1918 al 1980, ma con intensità soprattutto fino alla fine degli anni ’30, l’epistolario è innanzitutto la storia dell’amicizia fra due intellettuali. Poeti, critici e saggisti tutti e due, al di là del diverso impegno che hanno avuto queste attività nelle loro vite; anzi, si è sottolineata la loro complementarietà: il poeta è stato anche un critico, il critico è stato anche un poeta.

«Il vero lavoro a un certo punto diventa la scrittura» osserva Prete. «Quello che si chiama 'impiego' a un certo punto diventa secondario». Osservazione interessante quanto più si ricordano i diversi destini dei due amici. Montale nel ’23 scriveva a Solmi: «Questo settembre mi cercherò un impiego a Genova (probabilmente in qualche banca), sperando di non restarci tutta la vita». Com’è noto, questo non sarà il destino di Montale: sarà quello di Solmi, che lavorerà in banca tutta la vita. Montale, pur avendo sempre «secondi mestieri», trovò costantemente impieghi che avevano attinenza con l'attività intellettuale, dalla direzione del Gabinetto Vieusseux alla collaborazione col Corriere della sera.

Quello di oggi è un evento polifonico, nel quale Piccini media efficacemente fra il sapere specialistico e le ricostruzioni di D’Alessandro da un lato e le riflessioni più generali e ampie di Prete dall’altro. Si tratta di tenere insieme i fili di un’amicizia durata tutta la vita che non si può comprendere disgiunta dalla costante riflessione culturale da cui era nata e cui si è sempre intersecata.

Da giovani, «rifiutando posizioni estetiche preesistenti», partendo entrambi da istanze etiche, si trovarono concordi nei gusti artistici e nella critica del crocianesimo. Alla teoria crociana che prescriveva l’equiparazione dell’opera d’arte all’intuizione il giovane Montale contrappone l’idea che «una poesia è un’equazione» in cui si uniscono vari elementi. Una visione processuale che già guarda verso quella che sarà la critica delle varianti, e l’accettazione dell'idea del testo come processo. Anche in quest’evento c’è spazio per esaminare insieme qualche variante: il manoscritto della prima versione di Incontro, mandato a Solmi da Montale per chiedergli consigli.

E nel racconto si susseguono altre vicende contemporanee: il lancio di Svevo, innanzitutto, finalmente riconosciuto come autore importante a più di sessant’anni; il ruolo formidabile di Bobi Bazlen come mediatore culturale; il primo incontro con Contini, o, come lo chiama Montale in una lettera, «un tal Contini di Domodossola».

Due giovani, insomma – almeno quando la corrispondenza è più fitta – che si affacciano alla cultura italiana ed europea; distanti dalle opinioni dominanti, attivi nella propria ricerca artistica, attenti e pronti a intervenire nel dibattito che li circonda. Taglienti a volte nei giudizi, quando vogliono stroncare un autore o un’opera: Pane e vino di Papini viene liquidata da Montale come «pane raffermo e sidro di pessime mele». Certo «sono anche camerateschi»: ma anche questo cameratismo rientra sempre nell’espressione di una sensibilità culturale condivisa.

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