Te Brunetti Fusion
13 9 2020
Te Brunetti Fusion

Tre giorni dentro Te Brunetti per la nuova ricetta tradizionale

Una ricetta ha bisogno di tempo: per essere pensata, per essere realizzata, per essere goduta, per essere storicizzata. Festivaletteratura, per questa edizione 2020, ha deciso di prenderselo un po’ di questo tempo e di entrare nella periferia di Mantova – nel quartiere Te Brunetti – per cercare di ripensare questo luogo attraverso il suo cibo e attraverso i racconti sul cibo da parte dei suoi abitanti.

Con Lorenzo Mori di Riverrun e Nonturismo, e con Vanni Righi - chef del ristorante mantovano Lo Scalco Grasso - ci prendiamo anche qualche riga per raccontare da vicino questo coro polifonico e multiculturale registrato in tre giorni all’interno di Te Brunetti, dal suo ventre, dal giardino davanti la chiesa, dal circolo, dalla sala civica presso la sede Auser, dalle panchine basse del bar, fino ad arrivare al palco blu allestito da Festivaletteratura per il pomeriggio di domenica 14 settembre.


Raggiungere il quartiere Te Brunetti dal centro di Mantova è un gioco da ragazzi: da piazza Sordello si scende in direzione Palazzo Te, andando sempre dritti, verso sud, impossibile sbagliare. Giunti all’edificio, si costeggia il lato ovest all’ombra degli alberi, dopodiché si svolta obbligatoriamente a sinistra per percorrere un breve tratto lungo le mura meridionali. Si fiancheggia la ferrovia, il confine tangibile e leggermente rialzato, un muro tra il centro e la periferia della città. Poi un foro, un varco minuscolo, un cunicolo in discesa scarsamente illuminato si apre sulla destra. Si scendono cinque scalini e si cammina per ventri metri. Si spalanca alla vista uno spiazzo verde, con un po’ di cemento a terra e anche sulla linea dell’orizzonte. C’è qualche gallina ruspante che razzola sull’erba – che poi, in realtà, non è solo “qualche” gallina ma un numero ben più nutrito – qualche ragazzo in bici, qualche panchina, una fontanella.

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Ci diciamo che dobbiamo esplorare il quartiere, dobbiamo capirlo meglio e dobbiamo capire le persone che abitano qui: chi sono? Da dove vengono? Qual è la loro storia all’interno del quartiere? Poi ci facciamo anche raccontare le loro ricette, quelle che risvegliano i ricordi d’infanzia, come quando a Natale – mi ricordo - a casa mia, mentre le donne preparavano da mangiare, io e i miei cugini ci accucciavamo per vedere il colore delle mutande di nostra nonna da sotto la sottana.

Questo era il Tigrai, prima di chiamarsi Te Brunetti. Lo aveva chiamato così Mussolini, come la regione dell’Etiopia. Si diceva che qui le donne erano tutte puttane e gli uomini tutti ladri. Ma non era mica vero sai, era una cattiva nomea non giustificata. Qui ci stavano i poveri, ed era un ghetto, perché quella strada di là non c’era mica. Però anche se eravamo poveri, se qualcuno non aveva da mangiare ci si aiutava: dagliene un piattino anche alla Anna, mi diceva mia madre. Si mangiavano i maltagliati coi fagioli e le patate, roba che costava poco.

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Erano tempi diversi, qui ci stavano i netturbini. La mattina alle 10 mangiavano la trippa, che erano già stati in giro e avevano fame. Qui al circolo, di domenica mattina alle 9, stanno già mangiando i panini con la salamella, con la pancetta o con il cotechino. E un po’ di cipolline. E un campari o il lambrusco che qui si chiama scagaron.

Prendiamo appunti, prendiamo da bere, ci segniamo le date e i luoghi nominati. E annusiamo. Questa è l’erba di San Pietro, la si raccoglie a giugno, quando si festeggiano i santi Pietro e Paolo. Profuma di menta, ma è molto amara. Qua vicino, ci si fa il tortello amaro con questa: se ne mette un po’ insieme agli spinaci e alle bietole, poi si aggiunge del grana al ripieno.

Ricordo infiniti minestroni, magari qualche patata e un po’ di lardo, se c’era la fortuna di averlo. E la polenta con le aringhe. Mi piace ancora farla, perché si puccia e dà senso di comunità. Sa un po’ di vecchiume contadino. Intanto le zanzare, perfino di mattina, non ci risparmiano. Sono arrivata nel ’64 e qui c’erano solo piccole case campagnole e una palude. L’idea era di andare a vivere in campagna.

Clarence – dimmi – ti piace di più il cibo italiano o quello delle Mauritius? Tutti e due. Ma così non vale! Eh ma mi piacciono tutti e due. Poi si rimette a giocare con il suo amichetto.

Scusate eh, ma la zucca? Perché nessuno mi racconta i tortelli di zucca? Ma perché sono ovvi. Però a casa mia, dice un signore di quasi 92 anni, si fanno così: si preparano classici e poi si mettono a strati in una pirofila - tipo lasagna – e si mettono in forno. Ricordo che le spose tiravano la sfoglia e la nonna – la matriarca – metteva il ripieno. Non sono mai venuti male. E il figlio: era il piatto della vigilia ed era già protno e fumante in tavola. Ci dovevamo alzare tutti in piedi e recitare il rosario.

Nel quartiere c’è un bar frequentato dalla Priora. Ci fermiamo a bere qualcosa in sua compagnia - non della signora priora – ma di Chiara: non mi dare più del lei sennò mi arrabbio. Scusa Chiara, non volevo. Io ho avuto anche due bambini sinti – ci racconta – mi chiamavano mamma. Andavano a scuola con mio figlio. Ah sai, qui a Te Brunetti c’è una comunità sinti, ma io non ho mica problemi, a me problemi non ne hanno mai dati. È divertente perché appena prima dell’inizio dell’evento sul palco di Festivaletteratura, sono andato a salutarla: Ciao Chiara!, le ho detto. E lei: Ciao caro! E io: Lo sai che Lorenzo ti chiama a parlare, vero? E lei: Che non si azzardi eh! Poi Lorenzo l’ha chiamata a parlare e lei non si è più fermata.

Come gli altri presenti in fin dei conti. Hanno parlato tutti, chi più chi meno, hanno tirato fuor dal cassettino della memoria le loro storie, le vicende e le ricette. Ma vi ricordate il pescin putana? Si prendono gli avannotti, si friggono e si mettono nel risotto. Se poi ne avanzano si mettono nell’aceto. Eh, i ricchi mangiavano il capitone, i poveri il pescin putana.

C’è stato confronto, c’è stata interazione: tra generazioni, tra comunità diverse (non tutte), ma soprattutto tra papille gustative. Come lo immaginate - abbiamo chiesto – un nuovo piatto tradizionale di Te Brunetti, una nuova ricetta che faccia dialogare le nuove identità del quartiere insieme ai gusti della tradizione? Poi abbiamo proposto un giochino elementare, una votazione per alzata di mele di Te Brunetti raccolte per strada. Di seguito, le proposte dello chef Vanni Righi, in modo da riuscire a delineare la lista degli ingredienti e le modalità di preparazione della ricetta: Riso o pasta all’uovo? Pollo o maiale? Salato o agrodolce? Asciutto o brodoso? In bianco o con la conserva? Con o senza frutta? Piccante o speziato? Fritto o in umido?

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Ci sono state votazioni tirate, altre invece da maggioranza bulgara. Ma soprattutto c’è stata partecipazione, voglia di credere in questo progetto di innovazione culturale – per dirla con le parole di Lorenzo – e voglia comune di innaffiare il seme appena piantato. Perché dal cibo e sul cibo possono nascere tante cose: amicizie, amori, storie favolose, discussioni che finiscono in rissa, brutti ricordi legati a quel pasto mal digerito. Ma in questo caso si vuole andare oltre: creare un’idea altra di quartiere, di senso di comunità, a partire dal pretesto della ricetta tradizionale innovativa. Ed è ovvio che sia e debba essere davvero solo l’inizio, qualcosa da curare nel tempo, con amore, dedizione e entusiasmo. Ma gli abitanti di Te Brunetti sembrano aver recepito.

Ei caro - mi dice la priora Chiara – ci vediamo verso Natale allora? Almeno ci prendiamo una birretta assieme. Mi farebbe piacere Chiara – dico io. Intanto andiamo tutti a bere al circolo va'.

Festivaletteratura