Tra il vuoto e l'altrove
8 9 2021
Tra il vuoto e l'altrove

I paesaggi poetici di Jón Kalman Stefánsson​

La prima volta che Jón Kalman Stefánsson ha avuto a che fare con una casa editrice inizia così: «Perché tutto questo spreco di carta?». Non era certamente un giudizio in merito al suo lavoro. Era piuttosto un'esclamazione stupita. In fondo le pagine erano mezze vuote.

Nella poesia di Stefánsson, il vuoto è necessario. Come necessario è camminare a ritroso nella propria scrittura per ritrovarsi e meravigliarsi.

La prima volta che il dolore mi salvò la vita (Iperboea, 2021) non è soltanto un incontro con la sua poesia, ma piuttosto con la sua scrittura, intesa come gesto poetico. Si tratta della raccolta dei primi volumi di poesie dell'autore, pubblicati in Islanda tra il 1988 e il 1994. Nonostante la grande risonanza editoriale, non era assolutamente disposto a ripubblicare questi volumi. Erano polverosi. Troppo tempo era passato da quando aveva scritto quei versi. «Avevo smesso di scrivere poesie, perché non riuscivo più a ritrovare me stesso». Non sembrava che il mondo avesse realmente bisogno delle sue poesie» ed il confronto con le letture quotidiane, suo rituale preferito, sembrava proprio confermarlo.

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Eppure, sempre più persone lo fermavano per strada, gli spedivano lettere per posta ed intasavano la sua casella e-mail per spronarlo a ripubblicare i suoi primi volumi. Comincia la rilettura dei suoi scritti e l'analisi della sua scrittura. Un'ossessione che prende vita tramite un Virgilio famigliare, un altro sé, passato, più giovane: un fratello minore.

«La sensazione che ho avuto rileggendo dopo tanto tempo le mie poesie è stata quella di ritrovare un mio fratello minore». Magrissimo, occhi iniettati di sangue, un forte odore di whiskey sui vestiti e una domanda persistente: perché non mi riconosci?

C'è bisogno di vuoto, di camminare a ritroso e di tempo per potersi ritrovare, per accettarsi.

«Scusa caro fratello, eccomi di nuovo».

La prima volta che il dolore mi salvò la vita è un simbolo del potere salvifico e della necessità della poesia, nonostante sembri una battaglia vinta in partenza. In fondo «tutto, soprattutto il dolore, apre alla poesia e alla letteratura». Nella prosa di Stefánsson, dolore, rimpianto e nostalgia , sono spesso strumenti che aprono a paesaggi altri, che solo poesia e musica riescono a descrivere.

La musica per Stefánsson, tiene il ritmo dell'esistenza. Per molto tempo è stata un'ombra da seguire, un profilo da ricalcare. Primo fra tutti Tom Waits, uno dei musicisti più importanti e decisivi per la sua scrittura. «Riempiva l'esistenza».

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Ancora una volta, vuoto. L'ascoltava mentre scriveva le prime bozze. L'esistenza dell'autore islandese a quel tempo era decisamente vuota. «Aspiravo a diventare un assiduo frequentatore di bar, ma purtroppo non ne avevo la possibilità e per questo mi sono messo a scrivere». In fondo per lui, la letteratura è sempre stata evasione ed è sempre stata vitale. Apriva mondi paralleli, come i sogni, dove non c'erano leggi e si poteva vivere in modo diverso. Stare nell' "al di là" è una costante presente in tutti i suoi scritti. Un evadere «eliminando i confini» che ha trovato nei suoi libri preferiti. Come Il Maestro e Margherita che «insegna a pensare che la vita dell'uomo sia molto più importante di quello che è».

«C'è una bellissima frase » dice Silvia Cosimini, traduttrice del volume « che ha scritto nelle sue poesie: che altro è l'essere umano se non desiderio?».

Per Stefánsson, siamo tutti esseri sentimentali e non basterebbe la vita per cercare di controbattere o negare questa affermazione. Amore, attrazione e desiderio sono forze incrollabili che «ci guidano e ci spingono ad andare avanti. Pensate a Dante». Poesia e desiderio non sono risolutivi. Non hanno le risposte che vorremmo ci servissero, ma servono a capire che non esistono confini e che « l'esistenza può essere sconfinata».

Nella sua poesia-manifesto, Stefánsson allarga lo sguardo eliminando i confini.

Finito l'incontro, siamo tutti paesaggio.

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