Un giudizioso anacronismo
6 9 2024
Un giudizioso anacronismo

Il mito di Tasso oggi imprigiona la Liberata?

Torquato Tasso arriva a Mantova nell’estate del 1586; dopo un anno scappa già via, quasi senza salutare.

Arriva entusiasta e pieno di aspettative, lasciandosi alle spalle sette anni di reclusione al Sant’Anna di Ferrara — ospedale o carcere, in quest’epoca la distinzione non è ancora così netta. Il Duca Alfonso II d'Este è ricorso a questo provvedimento dopo la serie di crisi diplomatiche quasi innescate dal poeta, che, in preda all’angoscia e alla paranoia, ha accoltellato un servo e ha cercato di autodenunciarsi per eresia all’Inquisizione prima di Ferrara e poi di Roma, rischiando di mettere in crisi il delicato rapporto fra il Ducato di Ferrara e il pontefice. Al Sant’Anna Tasso scrive lettere agghiaccianti: dice di vedere topi che non ci sono, sentire rumori immaginari, di essersi convinto che ci sia un folletto nella sua stanza. Scrive, con consapevolezza: «sono frenetico».

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Vincenzo Gonzaga è per lui la salvezza: intercede per la sua liberazione, promette ad Alfonso di tenerlo d’occhio, lo porta a Mantova, lo fa alloggiare nella Rustica, a Palazzo Ducale. Tasso esprime più volte la sua gratitudine, nei sonetti di lode e nelle lettere agli amici: se i primi possono essere in sospetto di adulazione, le seconde sono sicuramente sincere. Ma qualcosa manca: in altre lettere Tasso parla di «libertà imperfetta». Per onorare la promessa ad Alfonso, Vincenzo Gonzaga lo tiene di fatto in libertà vigilata. Non solo: la libertà che immagina Tasso, che ha elaborato negli anni di prigionia, è forse ormai qualcosa di non pensabile per un intellettuale di quell’epoca, sempre costretto alle necessità di un codice del dono, di un sistema di protezioni.

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Questo spiega, forse, la scelta di andare via ancora una volta; sperando invano di trovarsi meglio altrove. La storia di questa scelta, di questa delusione e di questo disamore ce la raccontano oggi Martina Dal Cengio, Matteo Residori ed Emilio Russo, proprio nel cortile della Rustica dove Tasso ha abitato. Nel frattempo le vicende della vita e della malattia mentale di Tasso sono diventati miti romantici, oggetti di rivisitazioni e pellegrinaggi, e su di esse ogni secolo ha voluto dire la sua — dicendo, alla fine, più di sé che di Tasso.

A partire dal Novecento, osservano, viviamo in tempi più appassionati di Ariosto che di Tasso, e nessuno – osserva Dal Cengio – pensa di fare un film sulla Liberata, e forse è un peccato. Il titolo dell’evento, Liberiamo la Liberata, è provocatorio: Residori si chiede proprio se la biografia dell’autore sia (ancora) la porta giusta per accedere all’opera; se la Liberata non vada «liberata» proprio da Tasso e dal suo mito. E, poi, «liberarla» dalla sua «aura monumentale»: suggerire un approccio a essa, anche se magari graduale, invitare i non specialisti a leggere qualche ottava ad alta voce la sera, scoprirne piano piano la complessità.

A questo proposito, Residori invita a praticare una forma di «giudizioso anacronismo», e a cercare nel testo, senza snaturarlo, gli interrogativi che ci poniamo ancora oggi. Invitato a indicare qualche esempio, Russo ricorda subito due passi, tanto famosi quanto significativi anche per il pubblico di oggi.

Uno è quello di Erminia che arriva, armata e innamorata, fra i pastori – in un luogo che non conosce armi né guerre –, si toglie l’elmo, rivela di essere una donna: è una parentesi, finalmente, di pace, a pochissima distanza dal conflitto. L’altro è quello di un pagano – avversario nobile, come sono nobili gli avversari in Virgilio – che si affaccia e vede dall'alto:

«(quasi in teatro, od in agone) / l’aspra tragedia dello stato umano / i vari assalti, e ‘l fero orror di morte / e i gran giochi del caso e della sorte».
Festivaletteratura