Un ricettario planetario
9 9 2022
Un ricettario planetario

Il ricettario-memoir di Gian Piero Piretto e il suo insegnamento sul valore del cibo

Un libro delizioso: così si potrebbe definire l’ultima pubblicazione di Gian Piero Piretto, Eggs Benedict a Manhattan. Piretto, originario della provincia d’Asti, è stato docente di Cultura russa e Metodologia della cultura visuale all’Università Statale di Milano. Nel 2020, quando per la prima volta il Covid ci ha costretti alla quarantena, Piretto si è trovato bloccato a Milano, senza possibilità di tornare a Berlino, dove vive da un paio d’anni. In quello stato di segregazione, «tra il serio e il faceto» è stato colto dall’idea di scrivere il suo memoir. D’altronde, quale migliore maniera per passare una lunga quarantena in un appartamento milanese con solo un terrazzino? Il professore, tuttavia, non si è limitato a creare una semplice autobiografia, ma un ricettario della propria vita: per ogni capitolo, propone una ricetta tipica e caratterizzante di quella fase della sua vita.

Il libro si apre con l’infanzia e Piretto racconta di come, da piccolo, fosse la nonna la principale cuoca e amministratrice della sua alimentazione quotidiana. Nel raccontare, inserisce la ricetta della nocciolata piemontese, la sua madeleine proustiana. Arriva così alla bagna càuda dell’adolescenza; agli scones del periodo di studi a Londra; all’apple pie e ai cinnamon rolls degli anni di insegnamento in California. C’è molto anche della Russia, certamente: racconta i suoi viaggi arricchendoli di pollo in salsa satisivi, kartoška e golubtsy.

Piretto è riuscito a raccontare la sua vita anche e soprattutto attraverso il cibo. La sua passione per la cucina è sempre stata con lui, come una cosa innata, da quando guardava con stupore sua nonna praticare «il rituale pagano della spennatura dei polli». La stessa nonna era colei che gli intimava di smettere di annusare qualsiasi cosa gli capitasse a tiro. Il professor Piretto, infatti, racconta come non solo i cibi, ma anche gli odori siano per lui molto cari e intensamente vissuti. Così, ogni città ha un profumo particolare e personalissimo. Varazze sa di pesce e del profumo di krapfen caldi venduti in spiaggia; Parigi sa di mughetto e smog; Londra ha il caratteristico odore «di metropolitana»; San Francisco ha il profumo di cannella, dolce e patinato. La Russia sa di un miscuglio di disinfettante, avvolgenti profumi da donna e un certo odore di «mela marcescente» che impregna i vestiti.

Spesso si sorvola sul cibo, nel parlare del patrimonio culturale. Si pensa all’arte, alla musica, alla letteratura: ma ci sfugge che prima e soprattutto c’era il cibo, frutto dell’identità di un popolo e strumento per esprimerla e comunicarla. È per questo che il “cibo seriale”, introdotto dalle grandi catene di fast food e di ristorazione, è presagio di una globalizzazione anche alimentare che rischia di minare alle tradizioni e alle storie culinarie locali.

Quando per un periodo ha frequentato New York, ha osservato che il cibo che più convogliava una tradizione culturale erano le uova: a Manhattan, queste venivano spesso fatte alla benedict; ma spostandosi nei sobborghi più poveri, popolati da portoricani (o “newricani”, come li chiamano lì), le uova diventano huevos rancheros. Il denominatore comune, quindi, univa due zone di New York molto vicine geograficamente ma molto lontane culturalmente, socialmente ed economicamente: questa discrepanza si riversava nelle rispettive ricette e la connotazione culinaria diventava connotazione di culture, problemi sociali, storie.

Il cibo racchiude per l’individuo e la società un significato simbolico e relazionale: può diventare un piacere condiviso e quindi assumere un aspetto collettivo, diventare un prodotto sociale. È questo il valore che cerca di trasmettere Piretto nel suo memoir-ricettario: come il cibo, nella sua vita, sia stato fautore e accompagnatore di relazioni. Piretto racconta che nel corso degli anni, specialmente quelli universitari, ha incontrato molti professori per lui fondamentali, «più per come gli hanno insegnato che per cosa». Tutti questi professori avevano in comune il rapporto umano che instauravano con gli studenti: molti di loro tenevano cene a casa propria e li invitavano. Attorno al tavolo, mangiando, condividendo il cibo, scambiandosi pareri e storie, sbocciavano delle relazioni durature di confidenza. Quando poi è diventato lui stesso professore, ha cercato di fare altrettanto con i suoi alunni: combinare momenti conviviali con momenti istituzionali, portare il cibo nella relazione professore-studenti, perché fosse, ancora, occasione di condivisione.

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