Un sapore sempre nuovo
27 9 2015
Un sapore sempre nuovo

di Björn Larsson

La XIX edizione di Festivaletteratura si è chiusa da una quindicina di giorni e a rinfocolare la nostalgia, insieme alle splendide testimonianze lette in queste settimane, ci pensano anche autori del calibro di Björn Larsson, che dal '99 ci ha onorato più volte della sua presenza a Mantova e che quest'anno, dopo aver preso parte a due incontri con i lettori, ci ha fatto dono di un personalissimo memoir festivaliero, scritto apposta per il nostro sito. Buona lettura!

«La prima volta che ho avuto il piacere e l’onore di essere invitato a Festivaletteratura fu nel 1999, a un anno dall’uscita in Italia de La Vera storia del pirata Long John Silver. Fu una delle mie prime visite in Italia e la più importante secondo la mia editrice, Emilia Lodigiani. In pochi anni, Festivaletteratura era diventato il festival di riferimento in Italia, dopo il Salone di Torino.

Non ricordo cosa mi aspettassi. All’epoca, l’Italia era per me una terra incognita. Non parlavo una parola di italiano; non potevo leggere un giornale; entrare in una libreria – il mio passatempo favorito – era inutile; neanche guardare la TV aveva senso visto che tutti i film in inglese erano doppiati; avevo perfino problemi a scegliere qualcosa da mangiare al ristorante. Tutto ciò che conoscevo dell'Italia erano cliché, genere spaghetti, Chianti, pizza, mafia… e Berlusconi. Se l’Italia era una terra incognita, Mantova era un buco nero. Forse avevo sentito nominare la città, però non mi diceva assolutamente niente. Bisogna precisare che in Svezia non si legge Dante a scuola e che non l’avevo letto neanche più avanti.

La prima cosa che mi ha colpito all'arrivo è stata la bellezza storica della città. Per uno straniero sembrava ancora un cliché dell'Italia vista da fuori, con la piazza centrale, i ristoranti, i palazzi di centinaia di anni, le chiese a ogni angolo di strada. Mancava soltanto la biancheria stesa fra le case. La seconda cosa che mi ha stupito fu l’entusiasmo di tutti — lettori, scrittori, editori, organizzatori e volontari — per il festival. C’era una specie di effervescenza nell’aria. La terza cosa che mi tolse il fiato fu il vedere cinquecento persone sedute con pazienza ad aspettarmi per l'incontro. Mi sono sentito subito, se non una star, almeno valorizzato e privilegiato. Avevo capito che i lettori non soltanto erano lettori seri – però con il sorriso – ma che avevano preso giorni liberi e che spesso avevano fatto ore di treno o di macchina per venire ad ascoltare i propri scrittori preferiti, che già avevano letto. Non ho incontrato, come in tanti altri eventi, quei personaggi superficialmente istruiti che fanno finta di avere un interesse per la letteratura quando in realtà il loro scopo principale è di fare bella figura. Altri scrittori stranieri amici fra i meno conosciuti mi hanno parlato del loro stupore nell'incontrare tanti lettori di qualità al Festivaletteratura.

In mezzo al mio entusiasmo, tuttavia, c’era una grande frustrazione: non potevo parlare direttamente con i miei lettori. Avevo perfino difficoltà a capire come scrivere i nomi al momento delle firme –numerose – dopo l’incontro. Credo che sia stato lì che mi sono detto per la prima volta che dovevo imparare l’italiano.

Mi sono messo sul serio a farlo uno o due anni dopo. Quando sono stato invitato a Mantova la seconda volta, nel 2007, non pensavo più di avere bisogno di un interprete. Allo stesso tempo, ero un po' in ansia andando con un amico giornalista al primo incontro al palazzo di San Sebastiano dove dovevo dialogare con Simonetta Bitasi. Speravo che lei fosse abbastanza chiacchierona per riempire i miei silenzi o lasciarmi il tempo per ritrovare un congiuntivo. Fu quasi un sollievo quando non abbiamo visto nessuno, ma proprio nessuno, fuori del palazzo a fare la coda per entrare. Ci siamo guardati e dissi al mio amico che forse era meglio così. Soltanto che quando siamo entrati nel cortile c’erano seicento persone ad aspettarmi!

La mattina dopo, seduto in un caffè con un espresso, un quaderno e una penna a convincermi che potevo ancora scrivere qualche riga dopo il bagno di folla del giorno prima, una signora con la figlia di una quindicina di anni si è fermata per strada e i nostri sguardi si sono incrociati. Cortesemente, mi ha chiesto se fossi Larsson, lo scrittore del Cerchio Celtico, cosa che non potevo negare. Mi ha ringraziato di avere scritto il mio romanzo e mi ha raccontato che lei e sua figlia per due volte erano andate in Scozia grazie al libro. Mi sembra che questo sia il festival di Mantova in un guscio di noce: da un lato seicento lettori che ascoltano con attenzione uno o l’altro scrittore, noto o meno noto; dall’altro una lettrice che trova l’occasione di scambiare due parole con uno scrittore. E, fra le due cose, incontri a misura d’uomo, come la colazione con lo scrittore, con una ventina di fedeli lettori che hanno difficoltà a credere alla loro fortuna di passare un po' di tempo quasi in tête-à-tête con il loro amato scrittore.

La terza volta a Festivaletteratura, nel 2011, fu per me particolarmente emozionante. Non perché gli incontri fossero migliori rispetto alle altre volte, anche se fu un privilegio aprire il festival già mercoledì pomeriggio con Luca Crovi davanti a quattrocento persone, in un giorno della settimana. Mi ricordo anche con piacere l’innovazione di quell’anno, il translation slam con la mia traduttrice Katia De Marco e la sua collega Laura Cangemi, che avevano tradotto ognuna per sé un testo che avevo scritto per l’occasione. Mi è piaciuta l’idea di dialogare di altro rispetto ai miei libri: ho sempre paura di ripetermi davanti a un pubblico che in parte mi ha già ascoltato.

Per una volta, tuttavia, non mi sono fermato a parlare con i lettori dopo l’incontro sulla traduzione. Al contrario, sono scappato da una porta sul retro con l’aiuto complice di Cristina Gerosa di Iperborea. Mi sentivo un po' in colpa, ma non troppo. È che avevo un appuntamento cruciale un’ora dopo, il primo con la donna che è diventata la mia compagna di vita e che ha fatto di me un pendolare tra la Svezia e Milano. Sarebbe interessante sapere quante altre storie d’amore e d’amicizia sono nate a Mantova fra scrittori, lettori o volontari. Scommetto che ce ne sono non poche, di altre belle storie da raccontare, dal festival-off!

C’è sempre un po' di ansia nel ritornare in posti dove uno ha vissuto cose intense e forti: è per questo, per esempio, che ho qualche esitazione a ritornare a navigare in Scozia, dopo le mie esperienze indimenticabili con il 'Rustica' che, peraltro, dopo Il Cerchio Celtico, non sono più soltanto le mie ma anche quelle dei miei lettori. È un po' come rileggere un libro che uno ha letto con passione e fascino in gioventù. C’è la paura di sostituire un bel ricordo con uno brutto, di scoprire che, in fondo, le prime impressioni erano se non false, almeno di poca sostanza.

Quando sono stato invitato a Mantova per la quarta volta, nel 2015, sentivo un po' la paura di una delusione, aggravata dal doppio «successo», letterario e personale, dell'edizione 2011. Dopo aver partecipato molte volte in Francia a due altri grandi festival, Les étonnants voyageurs a Saint-Malo e Les Boréales a Caen, sapevo bene a che punto un festival può cambiare, in meglio, e, a volte, in peggio. Un festival letterario è quasi un organismo vivo: deve cambiare per rimanere interessante e seducente, soprattutto per gli habitué, ma non al punto da perdere la sua identità e gli elementi che hanno assicurato il suo successo. La routine e la compiacenza sono i primi nemici di ogni festival. La ricetta c’è, però deve assolutamente essere migliorata e raffinata per sorprendere i fedeli visitatori e gli scrittori che ritornano. La metafora del buon festival potrebbe essere quella del buon vino: è lo stesso, sempre buono, sempre vinificato con cura, però il sapore non è mai — e non deve esserlo — identico da un anno all’altro. A volte bisogna perfino cambiare un po' la mescolanza di uva.

Ho presto scoperto che non dovevo preoccuparmi per il sapore del festival quattro anni dopo l’ultima volta che vi presi parte. La novità per me quest’anno è stato un incontro intorno al tema della fan fiction, con qualche centinaio di giovani. Io, da sempre scettico riguardo alle mode, che spesso non significano nient’altro che reinventare la ruota per mancanza di storia, ho dovuto rivedere il mio copione di pregiudizi. Quei giovani scrivevano forse fan fiction, però lo facevano sul serio, con un coraggio personale e un livello di riflessione che mi ha impressionato. Ero sincero quando alla fine ho detto che era la prima volta che imparavo più dal pubblico che non il contrario. Di solito, quando davanti a un pubblico di giovani chiedo quanti sono quelli che « scrivono » — e ci sono sempre in ogni gruppo — al massimo si alzano una o due mani timidissime. Qui, invece, c’era un vero impegno da parte di coloro che partecipavano. Se ho insistito tanto sulla ricerca di qualità quando si scrive per gli altri – ogni singola volta che uno cambia una parola non è, ovviamente, per sé stesso, ma per rendere il testo più bello, più vero, più significativo – fu perché sentivo tra i tifosi di fan fiction davanti a me una passione vera per la lingua, l’immaginazione e la scrittura che potrebbe portare alcuni di loro a diventare più tardi dei veri scrittori, a lanciarsi nella sfida di immaginare i propri universi senza appoggiarsi a quelli immaginati da altri.

L’altra cosa che mi ha impressionato quest’anno sono stati i volontari con la maglietta blu, molto visibili ovunque e sempre pronti ad aiutare. Ho parlato con un paio di loro e ho capito che venivano spesso da lontano, per passione per la letteratura, pagandosi il viaggio. Bisogno salutarli e ringraziarli bene. Senza il loro supporto, Festivaletteratura non sarebbe il bel festival che è diventato. A proposito, ho risposto alle domande di una volontaria che faceva un’indagine sulla segnaletica del festival che sarebbe stata migliorata. Devo ammettere che non ho notato nulla della nuova segnaletica: quando avevo un problema di direzione, fermavo semplicemente una maglietta blu e chiedevo la strada o il luogo dell’incontro. Invece, forse sarebbe una buona idea spedire una mappa agli invitati prima di venire, con i luoghi del festival, gli alberghi e, soprattutto, l’indicazione di come raggiungere a piedi il centro dalla stazione. Quando sono ripartito, troppo presto purtroppo, ho visto una coda di scrittori davanti alla stazione che aspettavano un taxi, che non c’era, senza sapere che a piedi in quindici minuti sarebbero arrivati al festival e agli alberghi. Tutto qui.

Per il resto, auguro bella e lunga vita a Festivaletteratura, che se la merita! E non mi vergogno di esprimere la speranza che l’edizione 2015 non sia stata la mia ultima.

Festivaletteratura