Universi di lingue 1/3
7 9 2024
Universi di lingue 1/3

Prime lezioni di arabo e patois

Una lingua non è mai immobile, viaggia e si sposta con le persone, le transumanze, le idee. Si modifica e si contamina, è argilla tra le mani di chi va, chi viene e chi resta. Le Prime lezioni di lingua, una nuova serie di incontri di Festivaletteratura, raccontano proprio le lingue che camminano e abitano l’Italia portando con sé i loro universi secolari.

La prima lezione segue i passi di Tahar Lamri ed è impossibile definirla solo un’introduzione di arabo: nel giro di un’ora lo scrittore, drammaturgo e giornalista, spazia dal dialetto algerino al francese, dal russo all’italiano fino ad arrivare al dialetto romagnolo della sua Ravenna.

Nato in Algeria, ma trasferitosi prima in Libia e poi in Italia, Tahar Lamri è un fine linguista e non si accontenta della definizione di lingua semitica per l’arabo, ma sviscera gli alfabeti a partire dal proto-sinaitico, uno dei più antichi a noi conosciuti, e racconta la storia dietro alle lettere: la A imita una testa di toro (ora rovesciata), la B richiama la casa, la O si collega alla vista e all’occhio, la M contiene nella sua forma il concetto di acqua, mare, onde. Le lettere arabe, come quelle di molti alfabeti moderni, derivano da qui e, partendo dai nomi degli studenti della lezione, Tahar Lamri mostra la bellezza dei gesti e della calligrafia, arrivando fino alla complessità dei calligrammi.

Da un’infarinatura sulla scrittura, il discorso si allarga sulle comunicazioni nel mondo arabo. Se l’arabo classico del Corano o lo standard dei media sono una lingua franca, le parole del quotidiano, invece, seguono altre strade e tra parlanti di paesi diversi non è mai scontato comprendersi. Lessico e fonetica possono variare profondamente: il dialetto algerino, per esempio, non solo ha una pronuncia lontana da quello libico, ma contiene in sé ricche influenze berbere e di altre lingue che si affacciano sul Mediterraneo. E così, condivide con l’italiano parole come “faccia” e “gusto”, oppure mantiene il termine spagnolo “duro”, una moneta coniata ai tempi di Filippo II.

Eppure, l’uomo è l’unico animale che non può non comunicare:Tahar Larmi racconta il suo impatto e la sua perseveranza con diversi dialetti arabi e, allargando l’orizzonte, con altre lingue. Perché, se il francese rappresenta per lui la lingua del colonizzatore imposta fin dalla scuola, imparare, scrivere e sognare in italiano è una scelta di libertà, un battesimo attraverso la parola. Lo scrittore crede nella perdita (e riscoperta) continua di identità e nell’apprendere le lingue attraverso i sensi: cogliere i rumori della città e sentire i profumi dentro le case, gli permette di gustare e comprendere pienamente le parole, a volte nuove, a volte più vicine di quello che sembri.

La conoscenza delle lingue a livello istintivo e sensoriale è un tema fondamentale anche durante la seconda lezione dedicata al patois, idioma che deriva dalla lingua d’oc e che si parla in Valle d'Aosta e diverse valli piemontesi, oltre che nella Svizzera romanda e in alcune zone della Francia orientale. La scrittrice, cantautrice e artista Valeria Tron parte proprio dalla geografia linguistica, trasportando il pubblico del Festival nei luoghi del patois e del suo quotidiano: Rodoretto, Massello e la Val Germanasca, una «valle di intenzione» tra quelle valdesi, dove non è possibile arrivare per caso, perché vivere lì è una scelta di costanza e speranza. E proprio come i suoi parlanti, anche il patois cammina (letteralmente, dato che contiene nella sua radice proprio il concetto di zampe e calzari) tra le cime dei monti e i picchi sotterranei delle miniere di talco.

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Valeria Tron definisce il patois e tutti i dialetti «lingue di terra» perché rigetta ogni concetto di minoranza o subalternità rispetto all’italiano, la lingua del pensiero. Le lingue di terra hanno il dono dell’istinto e la capacità di esprimere con precisione la sfera sensoriale. Sono lingue artigiane, selvatiche e musicali, che «ti portano dove tu hai semi da far attecchire». Eppure, non perdono un lato colto e intellettuale, tanto che per la scrittrice si arriva a una dimensione più completa quando avviene l’incontro tra la lingua di terra e la lingua di pensiero.

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Mentre Valeria Tron parla degli abitanti della sua Rodoretto, una manciata di persone a 1400 metri di altitudine, racconta delle famiglie elettive che si creano nei borghi, della parola figlio che è sempre al plurale perché i figli sono di tutti, delle comunità che si conoscono visceralmente e che accudiscono ogni individuo, anche attraverso il patois, che sa accogliere e che non conosce la parola confine perché «è una chiave armonica che ti permette di sentire gli altri».

In diretto contatto con i trovatori del passato, il patois è una lingua narratrice e immaginifica, che vive di oralità, versi e musica. Con le sue canzoni, Valeria Tron affascina e commuove, immerge i suoi studenti nei suoni del patois e nell’ascolto di pancia, che suscita immagini ed emozioni prima ancora che si colga il significato dei testi. Perché non c’è modo migliore per svestirsi delle proprie sovrastrutture e connettersi con l’altro cantando insieme. Ancor più in una lingua di terra:

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Festivaletteratura