Conoscersi attraverso le frontiere
9 9 2016
Conoscersi attraverso le frontiere

Il focus sulla letteratura migrante e sulle migrazioni

Non c'è libro senza confini: quelli delle pagine in cui chi scrive custodisce parole che si sposteranno poi di lettore in lettore. Questa tensione tra il restare "dentro" e il continuo spostarsi è propria della parola scritta come dell'esperienza vissuta quotidianamente da milioni di uomini e donne: come per i libri, anche chi migra supera e ridefinisce confini, portando con sé storie legate ad un luogo e, allo stesso tempo, in continuo movimento e definizione. Aprire i libri delle migrazioni è atto non facile e, oggi, forse sempre meno richiesto: "migranti", "rifugiati", "clandestini" sono alcune delle etichette di cui siamo dotati per delegare, evitare, o addirittura rifiutare il problema del conoscere e incontrare l'altro. Nella sua ventesima edizione, Festivaletteratura ha cercato e aperto per il suo pubblico i libri della letteratura migrante, ha investigato il fenomeno migratorio e lo ha messo in piazza, a portata di mani e menti pronte ad attraversare le frontiere. Semplice e insieme coraggioso, come girare le pagine di un libro. Qui racconteremo gli eventi dedicati ai confini, con approfondimenti, interviste, segnalazioni.

Per saperne di più ogni giorno in Piazza Erbe potrete passare dal Punto Informativo sulle Migrazioni, organizzato in collaborazione con Open Migration e Forensi Oceanography e AMM - Archivio delle memorie migranti, ad ingresso libero. All'infopoint potrete testare le vostre conoscenze sul fenomeno migratorio, accedere a contributi filmati, grafici e pubblicazioni. Sarà inoltre ricca l'offerta di incontri con gli ospiti del Festival nello stesso luogo:

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Nei giorni scorsi, abbiamo incontrato lo scrittore albanese emigrato in Grecia Gazmend Kapllani. Qui sotto un approfondimento e la nostra intervista all'autore: una riflessione sull'identità di chi migra e sulle oppressioni, totalitarie e non, affrontate da migranti di ieri e di oggi.

«Un paese grande (come la Russia per esempio), isolato dal resto del mondo e con le frontiere ermeticamente chiuse, somiglia a una immensa prigione. Invece un paese piccolo come l'Albania con le frontiere ermeticamente chiuse somiglia a una camicia di forza».

Nel 1991 la fine del regime comunista in Albania ha portato per la prima volta nelle case occidentali l'immagine dei migranti provenienti via mare. Contemporaneamente dal paese avveniva però un altro esodo: quello delle persone che in massa lasciavano il paese a piedi per cercare di attraversare il confine con la Grecia. Gazmend Kapllani era fra questi e con il suo primo libro Breve diario di frontiera, scritto fra il 2004 e il 2005 e uscito in Italia nel 2015, ha cercato di dare un senso all'assurdo vissuto durante il comunismo e raccontare l'incontro/scontro fra due esperienze totalmente diverse.

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L'Albania di Enver Hoxha prima e Ramiz Alia poi era un paese totalitario da cui non usciva nessuno: il regime controllava confini, persone, azioni e bastava un sospetto o una segnalazione da parte di cittadini zelanti per essere inviati al confino in paesi sperduti o sparire misteriosamente. In questo contesto, l'Occidente era un miraggio che assumeva le forme delle luci lontane e delle lattine di Coca-cola o dei contenitori di detersivo che il mare riversava sulle coste e che venivano raccolti e conservati come preziosi cimeli.

Le lingue straniere si trasformavano allora nelle finestre di una cella, l'unico spiraglio da cui poter vedere il mondo, per leggere libri di contrabbando o captare stazioni radio straniere. Non appena ebbero la possibilità di attraversare i confini, moltissime persone non ci pensarono due volte, attratti dall'Occidente immaginato, ma soprattutto mossi dalla volontà di essere liberi, di conquistare tutto ciò che noi diamo per scontato: potersi spostare quando e dove vogliamo, fare ciò che desideriamo, senza che nessuno tenti di dirci chi essere e cosa pensare.

La Grecia, però, come molti paesi occidentali ora come allora, non era pronta ad accoglierli. Diffidenza o aperta ostilità, rimpatri, media che dipingevano i migranti con toni aspramente negativi: sembra che in 25 anni non sia cambiato quasi nulla. Nonostante il Novecento sia stato più di ogni altro il secolo delle migrazioni e nonostante viviamo in un mondo in continuo movimento, l'Europa sembra non aver imparato dal suo passato. È come se i migranti non fossero persone, ma numeri, o, quando va bene, cittadini di terza categoria. Eppure, come ricorda Kapllani, «le società che hanno saputo aprirsi all'immigrazione sono alcune delle società più inclusive, progressiste, forti, creative».


Nella giornata di giovedì, il primo intervento è quello di Mathias Énard, esploratore con i suoi romanzi dell'alterità dell'Oriente, costruita e immaginata, e dell'alterità presente in ognuno di noi. Come da titolo del suo ultimo lavoro, Bussola, Énard ci offre alcune coordinate:

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«Sono stati i casi della vita a portarmi verso varie città», afferma Énard della propria esperienza di letterato cosmopolita, mentre dialoga con il critico Silvio Perrella nella Basilica palatina di Santa Barbara. Non è certo un caso, però, se il punto geografico da cui si dispiega il racconto del suo ultimo Bussola è Vienna, città del musicologo orientalista Franz Ritter, il protagonista.

Nella storia europea Vienna è stata il punto più occidentale raggiunto dagli Ottomani, un nodo di incontro tra Est e Ovest che si è trasformato anche in teatro di scontri violenti; ma definirla per questo porta Orientis, come fece Hofmannsthal e come fa Sarah, il personaggio assente che Franz ama e rievoca, non è forse riduttivo e fuorviante? Se l’Oriente ha davvero una porta, su quale Oriente si apre, e come si può attraversare? In entrambi i sensi, da ogni lato? È così che la capitale austriaca in questo romanzo diventa innanzitutto una esperienza estetica che si nutre di tutte le sensazioni, gli odori, le musiche, i sapori che lì si sono stratificati nel tempo, dai quali si può partire in ogni direzione alla scoperta dell’altro.

Complicando l’idea di Vienna, l’autore problematizza anche l’idea di Oriente, innanzitutto nella sua relazione con l’Occidente. Franz, dice Énard, esagera quando interpreta tutte le trasformazioni avvenute a partire dal XIX secolo come esito del contatto con l’alterità orientale: ma in gran parte è giusto pensarlo, e i musicologi a cavallo tra Ottocento e Novecento lo intuirono per primi. Non c’è bisogno di pensare che l’Oriente abbia una porta, perché l’Oriente è già dentro di noi: il passo dall’Austria alla Siria si rivela, così, inaspettatamente breve.

«Cosa vuol dire orientarsi? Non trovare il Nord, ma trovare l'Oriente»: Bussola, premio Goncourt 2015 appena tradotto e pubblicato in Italia per Edizioni E/O, è un tentativo letterario di trovare l’Oriente, ma soprattutto di viaggiare alla ricerca di noi stessi e ridisegnare i confini di una identità europea in continua trasformazione.


Per l'autrice israeliana Dorit Rabinyan, la domanda centrale che sta in cima ad ogni scaffale delle biblioteche e nella testa di chi scrive romanzi non può che essere «Chi sono io?». Una domanda la cui risposta è, di nuovo, modellata dai confini:

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Nella splendida cornice del Convento di Santa Paola, Dorit Rabinyan dialoga del suo ultimo libro Borderlife con Elena Loewenthal, traduttrice. Nei mesi scorsi Borderlife è diventato il protagonista delle pagine dei quotidiani israeliani e poi di tutto il mondo, diventando un vero e proprio caso politico. Motivo: il Ministro dell’Istruzione israeliano lo ha bandito dalle liste di letture per i liceali poiché la storia d’amore narrata, fra una studentessa israeliana e un artista palestinese, viene vista come una “minaccia all’identità ebraica”.

Rabinyan descrive le sue emozioni subito dopo aver appreso la notizia: improvvisamente, le appare di vivere in un mondo artificiale, lontano dall’autenticità. L’autrice israeliana riconosce sorridendo come il membro ministeriale, che ha deciso di cancellare il suo libro dalle letture dei giovani, sia stata trascinata nel mondo della letteratura leggendo Borderlife: si sarebbe infatti "innamorata" dell’amante palestinese, pensando che potesse capitare lo stesso alle liceali sue connazionali e vedendo questo come pericoloso.

Tuttavia il libro non si riduce ad una storia d’amore difficile e al conflitto israelo-palestinese; la Rabinyan stessa evidenzia come il romanziere sia profondamente interessato alla dimensione privata ed è infatti qui che il suo libro trova le origini. L’israeliana racconta come sia stata spinta a scrivere da un senso di responsabilità nei confronti di una persona amata, un artista palestinese da lei conosciuto a New York, una presenza sentita costante durante i primi due anni di stesura. Nei quattro anni seguenti è stata invece l’immaginazione a guidare l’autrice rendendo Borderlife qualcosa di più di un’opera autobiografica.

L’israeliana conclude l’evento con le parole di Abraham Yehoshua il quale le ha riconosciuto di aver plasmato un personaggio arabo come nessuno aveva mai fatto nel panorama della letteratura israeliana. L’ambientazione a New York, la lingua parlata tra i due protagonisti, cioè l’inglese, la dimensione intima e di simbiosi erotica-amorosa isolano la storia d’amore fra i due protagonisti in una dimensione atemporale. Per riprendere le parole della Rabinyan, i due personaggi si incontrano come se fossero sulla Luna e non su un terreno di scontro.

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All'infopoint sulle migrazioni, il pubblico si confronta con numeri e fatti su diritto d'asilo, rifugiati, Ventimiglia e molto altro:

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I muri si saltano, quelli che ci sono (a partire da quelli che definiscono il "ruolo" dello scrittore) e quelli che si vogliono costruire:

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Protagonista dell’incontro con i giornalisti e scrittori Paco Ignacio Taibo II e Juan Villoro è il Messico, un paese di cui in Italia si sente parlare poco. Solo di recente, con le imminenti elezioni americane e la candidatura di Donald Trump, il maledetto confine Messico–USA è tornato a far notizia. L’incontro a Festivaletteratura di giovedì 8 settembre è proprio un’occasione per “dare parola alla terra del silenzio”.

Taibo e Villoro vanno dritti al cuore della questione, l’identità messicana, senza giri di parole. «Essere messicani oggi è un compito molto complesso. Uno sport estremo» spiegano i due. Parlare di tutto quello che il Paese sta attraversando vorrebbe dire stilare una lista lunghissima che spazia dal traffico di droga a quello umano, passando per centinaia di morti e “desaparecidos”. Sono disgrazie, queste, che accadono ogni giorno.

Oltre a essere messicani, Taibo e Villoro sono anche scrittori e giornalisti di fama internazionale. In una situazione caotica e frammentaria come quella che sta affrontando il loro Paese, la funzione del romanzo non è quella di fare ordine, come ci si potrebbe aspettare. «Il romanzo deve andare in profondità, far emergere e penetrare tutte le tensioni sociali», spiega Taibo. Bisogna essere testimoni di questa realtà – il che è una gran responsabilità, oltre che fatica.

Nonostante i tanti problemi, l’atteggiamento non è mai quella di resa. «Città del Messico è la città più interessante del pianeta, la città della resistenza». Per Taibo e Villoro, l’umorismo è la più potente delle armi. Durante tutto l’evento i due scherzano di continuo sulle condizioni estremamente difficili del Paese, deridendo la classe politica corrotta, incapace e parassitaria. Anche sul confine tra Messico e USA, l’ironia non si risparmia – «quello che Trump non ha ancora capito è che nessun muro può fermare un flusso di persone. Semplicemente, i muri si saltano».

L’incontro con Taibo e Villoro non è stato solo un viaggio nel cuore del Messico, ma anche una straordinaria lezione di umorismo, forza e coraggio: «la vita ha voluto che io fossi disgraziato, ma non ne avevo voglia».


Spesso in Italia ci dimentichiamo che siamo stati migranti fino a pochi decenni fa. Per fortuna, però, ci sono libri come Liberi... di dover partire – Libers di scugnî lâ, che non scompaiono con il tempo che passa e continuano a essere di straordinaria attualità. Leonardo Zanier ha scritto questa raccolta di poesie in friulano nel 1964, partendo dall'esperienza sua e dei suoi compaesani che lasciavano Maranzanis in Friuli per emigrare in Svizzera. Dopo essere stato tradotto in diverse lingue, dal francese allo svedese, e aver ottenuto un notevole riscontro ovunque, il libro viene ora riproposto in friulano, italiano e arabo.

Un'edizione che vuole raccontare a chi sta arrivando quella che è stata la nostra migrazione e allo stesso tempo essere una rilettura per gli italiani che hanno dimenticato e una condivisione per chi ancora ricorda. Fin dal titolo, estremamente attuale, emerge prepotentemente tutta la contraddizione insita nella migrazione: la libertà di andarsene, che è al tempo stesso costrizione, scelta imposta e condanna a un perenne sentirsi in bilico.

Quando Zanier ha scritto il libro voleva raccontare agli svizzeri il disagio dell'esperienza migratoria, unito al disagio di chi rimane, allo svuotamento dei paesi d'origine, che un po' alla volta, diventano lo scheletro di quello che erano, popolati più da fantasmi, che da persone.

Dove sono andati?

Ogni volta che si ritorna
tutto attorno ai paesi
c’è sempre un prato in più
che d’estate non sfalciano
e quelle ortiche enormi
quelle cicute come sterpi
quei mari di rabarbari e di erba inselvatichita
quei piccoli abeti e faggi e querce
non soffocati che li forano
o son già cresciuti
fan paura
certo qua e là qualcuno sfalcia
o da un qualche luogo del mondo
torna per tenere pulito
o fa sfalciare per telefono
ché “non sta bene”
o perché ci sono i turisti
– a cui ora abbiamo fatto posto
nelle nostre vecchie case vuote
e in alcune stalle ristrutturate
da anni e anni senza vacche –
o per tener lontani i serpenti
e tutte le specie di zecche
per impedire che il bosco arrivi nell’orto
o addirittura nel cortile
ma dopo i mucchi di fieno raccolto!
– non sapendo ancora che farne –
li bruciano

Nel fare questo, però, la sua opera è diventata espressione senza tempo dell'esperienza migratoria, dei drammi, delle paure e dei sogni di chi è costretto a lasciare la propria terra.
In un momento in cui la paura (dell'altro, della crisi, del futuro,...) è molto diffusa, diventando sfreno e sfiducia, ecco che la poesia di Zanier assume toni di speranza e lotta.

Domani...

Domani...
non è una parola
domani è la speranza
non abbiamo
che lei usiamola
facciamola diventare
mani
occhi e rabbia
e vinceremo la paura

Poesie tratte da Libers... de scignî lâ-Liberi... di dover partire-Libres... de dovoir partir. Testo friulano e italiano. Testo arabo e francese a fronte, Leonardo Zanier, Effigie edizioni, 2012.


Cos’è la frontiera? Quali sono le frontiere che definiscono i nostri spazi? Erigere un muro è la soluzione? Sono le domande con cui Alessandro Leogrande e Giorgio Fontana hanno voluto iniziare a confrontarsi nella Chiesa di Santa Paola. La frontiera, il libro dello scrittore tarantino, raccoglie testimonianze di migranti in fuga dalla loro terra d’origine. Per Leogrande il muro crea solo un accampamento al di là da esso, e la gente troverà comunque un modo per aggirarlo.

Le frontiere, infatti, cambiano costantemente. In una società così mutevole l’obiettivo allora diventa quello di trovarne le coordinate, riuscire ad orientarsi cercando però prima di capirne la complessità, mettendo invece da parte quella mentalità superficiale che ha portato all'appiattimento moderno, che non da voce alla diversità dei singoli. Il compito dello scrittore è questo, «scrivere un racconto», come dice Giorgio Fontana, che si basi «sull’articolo determinativo e non indeterminativo, provando a raccontare la società civile attraverso una storia estremamente privata».

«Sono riuscito a rendere ragione della unicità di ogni ferita?». Questa domanda fa da colonna portante a tutto il romanzo di Alessandro Leogrande, che ha cercato di analizzare il fenomeno migratorio attraverso le storie dei sopravvissuti, perché «anche in un barcone di ottanta persone trovi vite individualmente differenti fra loro e ognuno di loro ha il diritto di tenersi stretto la propria individualità». Talvolta il giornalismo non riesce ad afferrare questi dettagli, la letteratura invece è in grado di coglierli e restituirli ai lettori.

https://www.youtube.com/watch?v=EpksxaqsBfY

Le domande continuano: cos'è dunque un cuore intelligente? «È l’intelligenza emotiva che impara a distinguere» risponde Giorgio Fontana. Lo scrittore deve essere libero di scegliere il proprio soggetto, perché «il cuore intelligente è anche il cuore libero». È una libertà che permette allo scrittore di confrontarsi con delle ossessioni, dei traumi e di parlarne ogni qual volta ne senta l’urgenza, che si tratti di un dolore proprio o altrui, senza che abbia l’accezione di impegno etico o morale. «La libertà assoluta», dice Fontana, «è l’unico, vero comandamento per fare letteratura autentica e non per una ideologia narrativa».

In La frontiera tutta l’attenzione è su qualcosa che esiste ma si trova al di là di una frontiera, che quindi noi non vediamo ma che ci vede, ed è proprio su quello sguardo che lo scrittore decide di soffermarsi, per lui l’unico che restituisca una storia autentica.


«Un immigrato è una nota stonata perché deve rispondere del male del paese da cui proviene. Il mondo in cui è giunto dopo un lungo viaggio sembra dirgli: sii grato solo perché ti lasciamo vivere». Con questa frase di Gazmend Kapllani, Lella Costa introduce al pubblico Elvira Mujčić, Erminia Dell’Oro e Tsegehans Weldeslassie per parlare dell’emergenza immigrazione. Mujčić, in riferimento al suo ultimo libro Dieci prugne ai fascisti, sostiene che il vero male a cui gli immigrati debbano rispondere è il dolore della perdita. La perdita dei propri cari, delle loro case, dei loro oggetti, di tutto ciò che costituisce la loro identità.

La sua storia di perdita, Tsegehans Weldeslassie l’ha raccontata ad Erminia Dell’Oro nel libro Il mare davanti. Il protagonista, soprannominato Ziggy, ha rinunciato alla famiglia, alla sua patria in Eritrea, in nome della scelta di partire. «Andarmene non era il mio sogno, io amo il mio paese. Vivere per me significa essere in pace. Significa vivere di semplici gioie, come star seduto con mia madre nella mia casa ad Asmara, a mangiare un pezzo di pane». L’unico futuro che Weldeslassie vedeva in Eritrea era la carriera militare. La ribellione, la libertà, veniva punita. Perciò lui prese il rischio, e partì per un viaggio folle, rinunciando a tutto, senza possibilità di tornare indietro. Perché i migranti giungono sulle coste europee? Quali storie raccontano? La politica, sostiene Weldeslassie, non risponde mai a queste domande. In questo modo, nessuno trova una soluzione e la paura aumenta. Gli immigrati si sentono sempre di più isolati, lontani dal conforto di una casa e alla disperata ricerca di un legame con essa.

Pensate a quanto sia importante avere una casa, sottolinea Lella Costa, pensate all’importanza che noi diamo alle nostre chiavi di casa. Prima della partenza diamo uno, due, tre giri di chiave alla porta d’ingesso per assicurarci che sia ben chiusa. Dovunque andiamo, controlliamo di tanto in tanto che le chiavi siano al loro posto, al sicuro nella nostra borsa. Che sollievo quando le ritroviamo, di ritorno da un viaggio, dopo aver frugato con ansia nel nostro zaino. Ora pensate agli immigrati. E pensate, dice Lella Costa, a tutte quelle chiavi che si trovano nelle loro borse, nei loro fagotti…e, con loro, in fondo ai mari.


Anche la redazione dei più piccoli ha seguito l'evento per noi. Qui il loro resoconto:

Sentiamo tutti i giorni storie di migranti che lasciano il proprio paese, ma abbiamo mai avuto la possibilità di sentirli parlare in prima persona e di sentire le loro vite e le loro esperienze?

Elvira Mujčić ha scritto un libro sulla sua esperienza, su quello che ha passato una volta abbandonato il suo paese non per una scelta della famiglia, ma a causa della guerra nei Balcani. Il titolo del libro, 10 prugne ai fascisti, non ha molto a che fare con il contenuto ma l’autrice ha voluto sdrammatizzare la sua storia in modo da non farla risultare al lettore tanto difficile come è stata nella realtà. Insieme a Lella Costa hanno parlato di profughi: Elvira dice che per lei il termine profugo non ha nulla di letterario ma ha a che fare con la democrazia, perché di per sé non trasmette nulla ad esempio come il termine esule.

Molto diversa è invece la storia di Tsegehans Weldeslassie (Ziggy) che è raccontata da Erminia Dell’Oro nel libro Il mare davanti dove racconta la sua vita in Eritrea e il suo viaggio fino in Italia. Lui non era costretto a lasciare il suo paese, aveva una laurea e aveva anche un futuro, nell’esercito, cosa che non lo entusiasmava. L’Eritrea è stata una colonia italiana ma nessuno ci racconta veramente ciò che succede oggi là: non sono sotto attacco o in una guerra, ma in una dittatura, e quindi stanno combattendo una guerra interna. Ziggy ha insegnato matematica, la materia nella quale si era laureato, a dei militari, e ogni tanto si sentiva come il loro comandante e non come un docente.

Poi si è rifiutato di continuare ed è andato in carcere. Infine, nel 2007, ha preso la dolorosa decisione di abbandonare la sua patria e attraversare il deserto per arrivare fino in Italia. Dice che ha dovuto affidare la sua vita a dei trafficanti e quando qualcuno moriva «non c’erano problemi» perché i trafficanti non perdevano persone, ma soldi. Ziggy ha voluto lasciarci con una citazione: «Vivere senza rischiare, è rischiare di non vivere».

La storia di Elvira, che aveva raccontato di come i suoi nonni avessero tenuto le chiavi di casa per un giorno tornarci, ha dato lo spunto a Lella Costa per lasciarci con una domanda: quante chiavi ci sono nei fagotti, negli zaini, in fondo ai mari?

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