Playing Videogames: letteratura 3.0?
9 9 2016
Playing Videogames: letteratura 3.0?

Un omaggio alla letteratura attraverso le narrazioni trans-mediali

I videogames comparvero sulla scena dei nuovi media quasi cinquant’anni fa. Oggi, sono uno dei pilastri dell’industria dell’intrattenimento e molto di più: sono terreno fertile per la produzione di storie e nuovi linguaggi, nonché per la sperimentazione di soluzioni ai più piccoli problemi quotidiani. I videogames invadono, a volte aumentano, a volte sostituiscono, la realtà vissuta prima dell'avvento del joystick, delle tastiere, degli smartphone; si fondono poi con le più diverse forme espressive, creando narrazioni trans-mediali.

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Per questo, un festival dedicato al libro e alla lettura non può che proporre un percorso alla scoperta di un modo diverso per scorrere le pagine, immaginare e immaginarsi. Nel 2016 abbiamo cercato non solo di analizzare l’estetica, decifrare codici e orientarci in nuovi mondi, ma anche mostrare come i videogames rimescolino cultura “alta” e popolare, evidenziare il loro ruolo nell’arte contemporanea ed elaborare i quesiti che si presentano: come (ci) percepiamo? Cosa è più/ancora reale?

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Questi temi sono stati investigati a Festivaletteratura 2016 attraverso:

- una serie di eventi con esperti, autori e scrittori (eventi 104, 197, 220, 254);

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- alcuni approcci critici ai videogames, con lezioni/show in cui specifici aspetti della realtà virtuale sono stati affrontati dagli ospiti del festival e dal pubblico, chiamato a partecipare (eventi 17, 67, 123);

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- due workshop su come progettare videogames, da prospettive diverse (eventi 88, 169);

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- una vera e propria sala giochi, aperta ogni giorno durante il festival e curata da Andrea Dresseno insieme a We Are Müesli, all’esplorazione storica dei videogames, attraverso cinque temi principali: l’amor cortese, il sublime, guerra e pace, città invisibili e l’avanguardia;

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- Travelogue, un installazione audiovideo creata da artisti internazionali attraverso i videogames, curate da Matteo Bittanti.

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AAA: videogiochi made in Italy - La genealogia dell'industria videoludica in Italia

Alla luce artificiale delle cantine di Vicenzo Gonzaga, Mauro Salvador e Riccardo Fassone trascinano i bambini degli anni Novanta in un viaggio improbabile tra gli Albori Artisti Autori dell'industria dei videogiochi italiani nei suoi vent'anni fondativi (dal 1983 al 2003). È una chiacchierata da bar ma accademicamente impeccabile che parte dai tempi preistorici dei primi microcomputer (il Commodore 64!), quando i videogiochi venivano venduti in cassette e a programmarli erano bedroom programmers post-adolescenti.

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Il primo videogioco italiano, programmato da Enrico Colombini, fu un libro-game, un videogioco tutto testuale che richiama i fantasmi della cibernetica di Italo Calvino, e che come Il castello dei destini incrociati si costruiva sulle storie possibili, tante ma limitate dal «vai a destra» «vai a nord» «prendi la spada» che il giocatore può impartire al suo avatar. Seguirono i videogiochi tratti dai fumetti Bonelli, ai tempi del mito collettivo di Dylan Dog, e le prime case di produzione, come Simulmondo, una start-up ante litteram di bolognesi liceali, tra diritti d'autore non rispettati, e floppy disk piratati dagli stessi edicolanti, che – solo in Italia – si erano reinventati rivenditori di videogiochi.

Salvador e Fassone, con abilità da animatori turistici e precisione scientifica assieme, raccontano videogiochi storici e dimenticati, da “Bocce” a “Italy90Soccer”, dal gioco costruito sull'archetipo dei reality show – il Grande Fratello di Daria Bignardi – al gioco per intenditori che riproponeva le analisi balistiche di Blu Notte di Carlo Lucarelli. In un'ora e mezza di un venerdì pomeriggio a Mantova, Albori Artisti Attori riesce, chiamando sul palco ragazzi nati negli anni Duemila a confrontarsi con giochi nati prima di loro, nell'impresa ammirevole di dare cittadinanza culturale ai videogiochi di sempre.

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Playmakers

Gabriele Ferri nasce come semiologo. Solo in un momento successivo il suo percorso accademico è virato verso lo studio del design, inteso come interactive design, desing speculativo e game design. A monte di ciò si trovano una passione videoludica molto intensa e un'apertura mentale che gli ha permesso di giungere ai vertici del processo creativo, laddove fantascienza e realtà si incontrano, dove le visioni si concretizzano in innovazione tecnologica.

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Alle Cantine di Vincenzo Gonzaga Gabriele Ferri ha dato un assaggio del suo lavoro. Dopo aver diviso il pubblico in gruppi, seduti attorno ad un tavolo come un team creativo, ha invitato ogni gruppo a scegliere un gioco, semplice, un classico magari (Il gioco dell'oca, piuttosto che Space Invaders). Il processo di gamedesign prevede di sintetizzare il gioco stesso, aver ben presente obiettivi, le modalità tramite cui si vince e si perde e il necessario perché il gioco si realizzi.

È stata posta la questione: come verrebbe giocato tra vent'anni questo gioco? In particolare si è portata a tema la possibilità d'utilizzo delle Intelligenze Artificiali. L'esito della discussione più che giungere all'evoluzione del gioco di partenza ha portato a riflettere proprio su questo singolo elemento: l'intelligenza artificiale, i suoi poteri e i suoi limiti. In questo modo si è compiuta la parabola descrittiva del lavoro di Ferri: a partire da una situazione ipotetica si è arrivati a teorizzare nuove potenzialità di un servizio di Personal Assistance, che di fatto può essere ritenuto il progenitore delle future intelligenze artificiali. Dopo un volo pindarico nei cieli della fantasia e dell'ipotesi, si è planati su territori concreti della progettazione vera e propria.


Scrittori alla console

Per alcuni esiste una gerarchizzazione delle arti e il videogioco, ammesso che venga considerato tale, occupa uno dei gradini più bassi. Pensandoci bene, è uno dei pregiudizi più forti che riguardano questo giovane medium: in quanto gioco ed in quanto virtuale, compie fin dai suoi primi vagiti la sua battaglia contro chi vorrebbe relegarlo a trastullo per bambini o eterni bambini. Il suo massiccio inserimento all'interno di Festivaletteratura testimonia che questo periodo sta vivendo il suo tramonto.

Contro questo pregiudizio si sono mossi Tullio Avoledo (scrittore di fantascienza) e Davide Morosinotto (traduttore di videogiochi e scrittore per libri per ragazzi).

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Le serie The Witcher e Fall Out, secondo Avoledo, testimoniano questa evoluzione che li consolida come forma artistica matura. Ciò che colpisce é soprattutto la solidità di queste trame. Affinché un videogioco possa avere una vita longeva all'interno di un mercato ricchissimo di titoli è necessario che siano coinvolgenti. Questo stato si può raggiungere sia sviluppando il gameplay (Space Invaders ha una trama, ma molto esile, il punto di forza è una giocabilità accattivante) che creando una narrazione indimenticabile.

La scrittura stessa, sempre secondo Avoledo, non dovrebbe essere solo stile ma innanzitutto intrattenimento, qualcosa che in qualche modo avvinca e diverta.

Morosinotto ha avuto il merito di far luce su un altro aspetto fondamentale. Se nel libro la storia è già data, nel gioco la storia dipende da chi sta agendo: non possono esistere due partite uguali, anche senza considerare i videogiochi dai finali multipli. Il videogioco è più simile alla vita stessa, in cui si esordisce privi di particolare abilità, anche nel giocare stesso, e proseguendo si cresce, trasferendo le proprie pulsioni nel processo generativo. E' narrazione personalizzabile.

Festivaletteratura