L'omaggio in prima assoluta di Maurizio Cardillo alla commedia di Marcello Marchesi
«Dio t’assista; è blasfemo? Se c’è l’apostrofo no». Questa una delle frasi d’esordio dell’attore comico Maurizio Cardillo, che si è esibito proprio a Festivaletteratura nella prima assoluta del suo spettacolo Il sadico del villaggio, dedicato alla memoria di uno dei più grandi intellettuali e teatranti italiani del Novecento, Marcello Marchesi (1912-1978), definito da Umberto Eco «il re delle battute fulminanti e un genio del gioco di parole».
Vestito e atteggiato come un rispettabile gentiluomo degli anni Sessanta, Cardillo si profonde in una serie ininterrotta di brevissime battute, esplose una dopo l’altra a ritmo serratissimo, che riflettono il linguaggio e la società di quegli anni (compaiono parole come negro e maquillage) ma che risultano efficacissime anche per la nostra epoca. Frasi taglienti, lapidarie, che giocano su doppi sensi, assonanze, similarità linguistiche (un po’, se vogliamo, come Maccio Capatonda ai nostri giorni), ma anche commenti ironicamente feroci sulle ipocrisie e sulle contraddizioni della società. Temi imbarazzanti come il sesso, l’autoerotismo, la prostituzione vengono toccati con una verve provocatoria che, sessant’anni fa, doveva suonare sbarazzina e piacevolmente impertinente in un mondo dove l’eleganza, la rispettabilità di facciata tentavano di coprire l’umana contraddittorietà che da sempre ci contraddistingue: «Padre di famiglia: diviso tra il piacere della casa e la casa di piacere».
Finte pubblicità, ricostruzioni di dialoghi, vere e proprie barzellette: in Il sadico del villaggio c’è un po’ di tutto. Cardillo, magistrale nella sua interpretazione, combinando alla perfezione tono di voce, espressività facciale, postura corporea e formalità d’abbigliamento, riesce perfettamente nell’intento di ricreare la comicità degli anni ’60, in un’operazione al confine fra l’attualizzazione e la ricostruzione storica. E, fra le risa più genuine, non mancano nemmeno spunti di ironia più sottile e riflessiva: «La vita è bella perché non conosciamo altro di meglio». Una comicità novecentesca, d’altri tempi, dalla quale però questa nostra epoca di immediatezza e di grezze risate superficiali avrebbe molto da imparare.