Broken songlines
13 9 2020
Broken songlines

Quando le immagini parlano e le parole sussurrano

Non ci sono parole per descrivere il lavoro di Monika Bulaj. È testimonianza. Bellezza traversata di dolore. Vita e umanità in stato puro. Quando presenta il suo lavoro dal vivo tutto tace e si riempie della luce del viaggio, del racconto, di una antichità ancora viva nei confini di un mondo che sembra a punto di sparire. Ma esiste ancora. Ed è proprio nelle periferie, dice, dove «accadono le cose». Attraverso gli scritti, le immagini, le musiche e le parole che sembrano cantate, più che dette, Monika Bulaj ci porta attraverso il sacro al di là le frontiere delle culture e delle religioni. «Non chiedermi di quale religione sono», le disse uno sconosciuto che la ospitò a Kabul, «ma se sono una persona buona».

E così inizia questo viaggio dove quello che conta non è la macchina fotografica, ma le scarpe perché «è un cammino dietro alle persone in fuga dalla follia dell’uomo». Un viaggio che parte dall’Afganistan ma arriva fino in Tibet, dove gli uomini vedono nella natura il corpo della divinità, per poi tornare a quell’altro confine che è Trieste, dove abita la fotografa. È un viaggio che parte dalla carta geografica, ma che vorrebbe «creare un atlante nuovo di geografia, un atlante che spezza le mappe mentali che sono alla base delle divisioni». Studiare è fondamentale, e questo ultimo progetto, intimamente unito a un altro raccolto nel libro Dove gli dei si parlano, nasconde tre manoscritti, uno buddhista, uno sufi e uno nestoriano, e si lascia guidare dai grandi poeti, mistici e filosofi di tutti i tempi.

«Questo lavoro è cambiato negli anni. All’inizio documentavo le piccole e le grandi religioni nelle ombre delle guerre antiche e recenti.

Ad un certo punto sono state le mie immagini a cercarmi, a parlare da sole, raccontando delle preghiere e dei sogni, dell’acqua e del fuoco, della memoria, del teatro, della festa dei morti, della via dei canti. Ora quello che faccio è una cosa semplice, quasi infantile: raccolgo schegge di un grande specchio rotto, miliardi di schegge, frammenti incoerenti, pezzi, atomi, forse mattoni della torre di Babele…

Forse solo questo può fare il fotografo: raccogliere tessere di un mosaico che non sarà mai completo, metterle nell’ordine che li sembra giusto, o forse solo possibile, sognando, quell’immagine intera del mondo che magari da qualche parte c’è, o forse c’era e s’è perduta, come la lingua di Adamo».

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