Cantare alle mucche
9 9 2020
Cantare alle mucche

Immagini da Festivaletteratura in remoto

In Tunisia cantano alle mucche. È una delle cose che mi è rimasta più in mente degli ascolti fatti durante la giornata di ieri: per la prima volta Festivaletteratura, l’ho solo ascoltato. Una sensazione strana, lo ammetto. In un primo momento si è presi da uno strano senso di nostalgia che passa dopo qualche minuto. Serve poco tempo al festival per mandarti altrove. Effettivamente mentre ascoltavo gli eventi pensavo che il Festival rimanda sempre ad un altrove, anche quando si è a Mantova - soprattutto, mi viene da dire, quando si è a Mantova. L’apertura celeste della Camera degli Sposi del Mantegna lo ricorda. In quelle poche giornate racchiude le parole del mondo o forse per un attimo se ne allontana.

Così dal mio giardino, con un paio di cuffie, mi sono trovato a Tunisi, dove a quanto pare si canta alle mucche.

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Questo aspetto sembra fiabesco. D’altronde il racconto di una città come Tunisi non poteva esistere senza questo tipo di aneddoti, che provengono dal contrasto tra una realtà cittadina rigida e un mondo contadino caratterizzato da un sentire collettivo fortemente immaginifico. Due visioni che si sviluppano in modo dialettico anche nell’incontro strettamente urbanistico e architettonico della città e delle sue periferie. Due realtà complementari e indispensabili a se stesse. Questo miscuglio trova inevitabilmente sfogo nella letteratura, nell’arte, nella poesia e nell’architettura. L’impressione è che questa terra trovi forza nella contraddizione dialettica tra più parti e che per questi racconti, per queste fiabe, non basti una lingua. Che l’arabo si vesta delle sonorità del francese e che a sua volta quest’ultimo trovi nelle ritmiche fonetiche dell’arabo un'altra linfa vitale. Gli stessi autori intervistati da Luca Scarlini rappresentano a pieno questa cortina invisibile.

Ali Bécheur, Elisabeth Daldoul, Yamen Manaï, Ahmed Mahfoud ed Elisabetta Bartuli fotografano immagini differenti che si sovrappongono fino a realizzare una variegata e nitida visione della città di Tunisi. Per Ali Bécheur, che scrive in francese ma vive a Tunisi da più di cinquant’anni, la condizione della città anche nella sua storia è definibile in uno schema urbano ben preciso: La Medina, i quartieri centrali aristocratici e le due fasce periferiche turistica (a nord) e a modesta (a sud) che cingono la città. Per Yamen Manaï è invece l’aspetto campagnolo della sua infanzia ad avere quello spirito fiabesco che entra dalle periferie nella città, dove si scontra con il suo spirito crudo e le sue cicatrici. Figlie queste di un colonialismo, anche italiano, che si rende collante urbano.

"Una città in libri" mi ricorda Calvino. Siamo fatti di città. Costruendole abbiamo lasciato dei segni nelle vie, nelle piazze, sopra i tetti e nelle cantine. Forse, per un paradosso epistemologico che non riusciamo a ricordare, ci sorprendiamo di ritrovarci. Leggere una città tramite i suoi scrittori, significa scoprirsi città e forse, in qualche modo, scoprirsi scrittori. È interessante scoprire quanti percorsi possono essere compiuti a partire da una semplice immagine. La contraddizione è uno spazio importante della realtà. Ho ritrovato questi pensieri la sera. Stavo camminando per le vie della città, ascoltando Mark Z.Danielewski intervistato da Simona Micali, mentre parlavano di forma del racconto e di come la forma di un racconto possa adattarsi al lettore. Come rendere vivibile, o meglio ancora, abitabile lo spazio narrativo. Era ancora una contraddizione: la necessità di abitare uno spazio immaginato. È molto interessante comprendere in che modo un romanziere costruisce la sua idea di racconto, come architetto delle parole. Al tempo stesso come sia abile nel maneggiare una storia affinché chiunque ci si possa perdere dentro.

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È interessante comprendere come alcuni temi e alcune parole abbiano richiesto tempo prima di essere assimilate e condivise. A differenza degli anni passati “in presenza”, ci ho pensato un po’ di più. Le ho volute e potute ritrovare subito nella realtà di ogni giorno e credo sia un aspetto estremamente positivo del festival in versione digitale: creare ulteriori collegamenti con altre possibilità. La meta-mappa del Festivaletteratura si è ampliata e coinvolge personalmente.

Ne è stata la conferma "Sintomatiche Parole", condotto da Lorenzo Alunni con due ospiti dal curriculum notevole: Roberto Esposito e Paolo Vineis. In qualche modo è stato come mappare una parola, capire fin dove si estende il suo significato, con cosa entra in contatto o con cosa è entrata nel corso della sua esistenza. Con l’aiuto di Giuseppe Antonelli, conoscerne l’etimo. La parola che si studia oggi è immunità. In questo periodo, ho sentito centinaia di volte la parola immunità. In qualche modo si può parlare di epidemia anche per il linguaggio. Alcune parole sono contagiose e non possiamo permetterci di essere immuni al loro significato.

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In radio, sui giornali, in televisione, su internet, sui social e come tutte le parole usate di continuo, dopo poco, si è sbiadita e ha perso il suo significato. Prendersi cura delle parole, come per le città, in fondo serve a noi stessi. L’immunità è una condizione di riparo, una condizione sicura, ma non per questo certa, non per questo stabile. Questa fragilità appare evidente in ogni riflessione dei due ospiti, che tengono costantemente a sottolineare la necessità di un nuovo equilibrio e gestione dei rapporti tra l’aspetto sociale e politico e l’aspetto scientifico. In questi tempi la condizione della parola immunità sta sottolineando e accelerando un rapporto tra scienza e politica. «Già in passato» come afferma il Paolo Vineis «nella gestione delle epidemie c’era una forte considerazione della condizione sociale e geopolitica». Anche oggi quindi non si può essere immuni al significato di immunità ed «è necessario riconoscere che l’immunità è un dispositivo negativo di cui non si può fare a meno».

È interessante il rapporto che l’uomo ha con l’invisibile. Dopo aver ascoltato "Sintomatiche Parole", ho camminato verso il centro della città e quasi per caso ci sono entrato. Ho visto una signora pregare con una mascherina in mano e quell’immagine ha assunto un significato differente. Mi sono tornate alla mente le parole dei due professori ed in particolare quelle di Esposito quando ha affermato che «l’immunità nasce con l’epoca moderna, ovvero quando viene meno la parte trascendentale dell’epoca precedente». Quella signora sembrava, per un attimo, pregare la scienza.

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Anche l’incontro con Nausicaa Giulia Bianchi e Marco Brioni parlava di fede. L’immagine della fede. Bianchi, dopo aver studiato fotografia a New York, ha trattato della figura delle donne prete. Ha deciso di indagare le loro storie raccogliendo una serie di materiali differenti testi, video ed in particolare fotografie incentrando la sua ricerca su temi come la memoria, la fede e il femminismo.

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Mi piace come le immagini di Nausicaa Giulia Bianchi diano forza a una battaglia anche o forse soprattutto spirituale. Battaglia che solo l’anno scorso ha avuto qualche piccolo riconoscimento dal Vaticano. Il progetto prende il nome di “Women Priest Project”, che è diventato anche un documentario dal titolo “You Gave The Virgin a New Heart”. Alcune delle fotografie di questo progetto stanno esposte ad ottobre a Mantova per la Biennale della Fotografia Femminile.

Darò tempo al Festival per risuonare con le sue novità e le sue contraddizioni nelle mie giornate, ancora e ancora. Nel frattempo tornando a casa lo zaino è più pesante di prima e mi accorgo che ci sono libri nuovi. Benedetto Festivaletteratura (da remoto)!

Festivaletteratura