Cinque storie per una prospettiva decoloniale
9 9 2023
Cinque storie per una prospettiva decoloniale

Attraverso cinque storie che rappresentano cinque paesi arabofoni, Leila Belhadj Mohamed racconta il Sud Ovest Asiatico oltre la narrazione occidentale.

L’arabo è la sesta lingua più parlata al mondo. Nonostante questo, per questioni di potere più coloniali che linguistiche, sono solo pochi i testi attualmente pubblicati in Italia tradotti direttamente dall’arabo. La giornalista e attivista Leila Belhadj Mohamed non si accontenta più di leggere racconti provenienti dal Sud-ovest asiatico (il "Medio Oriente" colonialista) attraverso scritti mediati dal colonizzatore, condizionati dalla sua lingua e dalla sua visione, limitata ai pochi temi specifici che interessano l’Occidente, come le guerre o le immigrazioni.

I cinque libri scelti dall’autrice per l’incontro mostrano come questa visione sia estremamente riduttiva e evidenziano la necessità di ascoltare, in questo caso leggere, le parole di chi quelle storie le ha vissute direttamente e ha le competenze per raccontarle. Ad ogni libro corrispondono un paese e un focus diverso, tutti però connessi dalla necessità di avviare un confronto per rimuovere gli stereotipi ancora esistenti sul mondo arabo.

A partire dalla storia personale di due famiglie tunisine, si può raccontare anche quella dell’intero paese. La casa dei notabili (2023) della scrittrice e professoressa tunisina Amira Ghenim, premiata dalla giuria del prestigioso premio tunisino COMAR d’Or, si sviluppa a partire da una figura invisibile. Taher al-Haddad è considerato il primo femminista islamico: a lui si deve l’avanzamento del paese sui temi della liberazione e dell’indipendenza delle donne tunisine. Studia alla prestigiosa università al-Zaytuna, ma preferisce l'attivismo, scontrandosi con la società profondamente misogina del tempo. Per al-Haddad infatti «una società in cui le donne non sono libere non è veramente libera»; per questo si batte per consentire alle donne di trovare un posto nella società, altro grande tema delle sue opere, e lo fa dimostrando come lo studio della Shari'a non sia intrinsecamente maschilista (narrazione che invece ha avvantaggiato chi deteneva il potere). Nel 1930 scrive l’opera che servirà da base per il Codice dello Statuto della persona, redatto in seguito alla liberazione della Tunisia per garantire l’uguaglianza tra uomo e donna in diverse aree della società. È grazie a La donna tunisina nel diritto e nella società che le donne tunisine possono liberamente abortire, divorziare e vivere in famiglie monogame già dal 1956.

L’autrice del libro L’amore ai tempi del petrolio (2001) è forse invece la femminista più importate di tutto il mondo arabofono. Nawal al-Sa’dawi, scrittrice, psichiatra, saggista e militante femminista egiziana ha sempre pagato caro il prezzo del suo attivismo politico. A partire dal 1981 dovrà affrontare il carcere in quanto “personalità pericolosa” per le autorità egiziane e sarà poi costretta all’esilio negli Stati Uniti per fuggire alle minacce di morte dei fondamentalisti di matrice islamica. Questo però non la fa certo demordere dal continuare a scrivere e nel 1996 torna in Egitto per proseguire la sua produzione letteraria. La protagonista del suo giallo femminista è una donna, più precisamente un’archeologa emancipata e appassionata del suo lavoro, che in un paese africano scompare dalla circolazione. «È veramente scappata? - è la domanda che guida tutta l’opera - E se sì, perché una donna così emancipata avrebbe dovuto fuggire?». La protagonista non ha un nome: questo viene negato ad ogni altro personaggio e allo stesso paese in cui si svolgono i fatti. Non si parla qui di una donna sola o di un luogo solo, ma di tutti quei contesti in cui la donna rimane ancora relegata in condizioni subalterne. Forza esterna onnipresente, a premere e condizionare, è anche quella dell'economia legata al petrolio, definito come "grimaldello dell’oppressione".

Tra il 2005 e il 2006 l’Iraq e la sua capitale Baghdad venivano rase al suolo dalla guerra civile e dagli attentati terroristici. In questo contesto l’autore e produttore Ahmed Saadawi esprime l’angoscia e la disperazione che in quegli anni hanno colpito tutto il Sud-ovest asiatico ambientandovi Frankenstein a Baghdad (2015). Nella capitale distrutta qualcuno decide di raccogliere parti dei cadaveri causati dalle esplosioni e di creare un mostro come quello di Mary Shelley che possa vendicarli tutti. Questa narrazione cruda e crudele della realtà, anche se ispirata dall'immaginazione, consente a Saadawi di vincere il prestigioso International Prize for Arabic Fiction nel 2014 e di diventare un simbolo della disillusione e della frustrazione di un mondo arabofono perpetuamente in guerra.

È necessario in questo contesto affrontare anche il tema dell’immigrazione, ma Leila Belhadj Mohamed decide di non seguire la solita traiettoria del Mediterraneo. In Canna di Bambù dello scrittore e giornalista kuwaitiano Saud Al Sanousi si parla infatti di ingiustizie e migrazioni interne. Il piccolo José, il cui nome deriva direttamente dall’eroe nazionale filippino Rizal, nasce in Kuwait dall’unione clandestina dell'esponente di una famiglia dominante e della madre filippina Josephine Mendoza, che scappa in Kuwait per fuggire dalla violenza lavorando come personale domestico. Qui José da avere il nome di un eroe passa a essere nessuno: tutti lo chiamano Isa letteralmente “uno”, cioè una persona qualsiasi, priva di identità. A causa dello scandalo creato dalla relazione, il piccolo José e Josephine sono cacciati dal paese e il protagonista vi ritornerà solo in seguito per cercare il padre. Al Sanousi affronta così il difficile argomento delle pratiche discriminatorie che colpiscono chi cerca di entrare in Kuwait, come il ritiro del passaporto che impedisce a chi entra nel paese di tornare a casa. Una misura che colpisce soprattutto il personale domestico, che diventa così a tutti gli effetti proprietà della famiglia che gli ha dato lavoro. Violenza riscontrabile anche nello sfruttamento dei migranti del Bangladesh per la costruzione degli stadi dei Mondiali in Qatar.

E ancora, un apparente giallo che cela un romanzo di formazione. I tre ragazzi protagonisti di Delitto a Ramallah (2020) incappano nell’omicidio di una ragazza, uccisa fuori dal locale in cui si trovano, e per questo vengono sospettati del delitto. Lo scandalo causato in Palestina non è dovuto al contenuto del libro, ma al fatto che l'autore, Abbad Yahya decide di raccontare un protagonista omosessuale: la lettura è vietata e lui è cacciato e ricercato per delitto alla moralità. Lo stesso sindacato degli scrittori gli si rivolta contro, anteponendo la lotta per la liberazione del popolo palestinese a quella di genere, in un esempio di battaglia incapace di vedere al di fuori di sé.

Dall’evento emerge anche come la lingua sia ancora profondamente coloniale, separando un “noi” da un “loro” immaginario. Se chi ha le competenze prova a parlare, spesso la cultura glielo impedisce definendolo scomodo. Dovremmo allora tutti intervenire, dichiarando apertamente la nostra ignoranza e facendo da cassa di risonanza a chi di questi temi veramente può parlare.


Come la stessa autrice ricorda alla fine dell’evento, è importante usare questi momenti di visibilità anche per dare voce a chi non la può avere.

Khaled Al Qaisi è un cittadino italo-palestinese arrestato in Israele senza alcun capo di accusa lo scorso 31 Agosto. Tuttora è in prigione senza che vengano chiarite le ragioni per la sua detenzione. La Farnesina non si è ancora attivata sul tema, non pubblicando alcun comunicato o comunicazione.

È fondamentale mantenere alta l’attenzione e incitare ad un’azione collettiva per impedire che si ripeta un secondo Patrick Zaki.

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