La vita di Charles de Foucauld secondo Pablo D'Ors
Nobile francese, ufficiale in Africa, esploratore poi convertito al cristianesimo, frate trappista, custode di un capanno in un convento a Nazareth, infine martire: tutto questo e molto altro è stato Charles de Foucauld (1858-1916), eppure – fa notare Alessandro Zaccuri – nessuno scrittore aveva mai scelto di scrivere questa vita che «è già un romanzo». A metterla per iscritto ci ha pensato Pablo D’Ors, che con L’oblio di sé (Vita e pensiero, 2016) ha deciso di omaggiare un personaggio cui lo lega un vincolo particolare che chiama «una vera e propria storia d’amore».
D’Ors accoglie il pubblico in un modo inconsueto, ovvero intonando un canto: Oh pobreza, fuente de riqueza. Lo fa, dice, «per perdere subito la reputazione», per non preoccuparsi più di sé stesso e dell’opinione che il pubblico potrebbe farsi di lui e lasciare invece l’intera scena al suo personaggio. Si tratta, a ben vedere, dello stesso schema che ha segnato la vita di de Foucauld, uno che a un certo punto ha voluto vivere il vuoto, dimenticarsi di sé e smettere di utilizzare la parola io, mettere a tacere «il pupazzo dell’io». Ma si tratta solo di una delle tante analogie che legano autore e personaggio, in primis l’origine della scrittura: se il secondo è diventato un «grande ricercatore dello spirito» nel momento in cui ha avvertito una mancanza e il bisogno di cercare altro, il primo ha sentito il bisogno di raccontare la sua vita proprio in un analogo momento di crisi personale, spirituale, autoriale – al termine del quale, proprio come Charles, ha fatto «esperienza del deserto, del vuoto».
L’ego di questo personaggio multiforme – un ego al quale D’Ors, paradossalmente, fa dire “io” in un romanzo che è un diario fittizio – è l’angolo che questa volta D’Ors ha scelto per indagare l’identità e l’essenza della vita umana. Ma se per scrivere di un ego bisogna mettere un po’ di sé stessi, come si può scrivere di un santo? La risposta di D’Ors è: «bisogna provare ad essere santi. Ascoltare e mediare. Non si può scrivere di santità se non provi tu stesso a essere santo». Solo con il lavoro interiore, infatti, si può recuperare la letteratura alla spiritualità e finalmente opporre alla narrativa del buio una «narrativa della luce».