Dylan, il Nobel e il secolo americano
14 10 2016
Dylan, il Nobel e il secolo americano

Il riconoscimento al cantautore statunitense nel punto di Giorgio Signoretti

Il dibattito, si sa, corre da tempi immemori sul filo dei premi letterari. Se poi si parla di Nobel, quello del 2016, assegnato il 13 ottobre a una leggenda vivente come Bob Dylan, ha ora sorpreso – nonostante il suo nome figurasse da più di un decennio nella lista dei possibili candidati –, ora estasiato e scandalizzato, risvegliando passioni di ogni genere. Invece di impelagarci negli irrisolvibili (e poco interessanti) "Perché a lui sì e a Roth no?", poche ore dopo il verdetto dell'Accademia di Svezia abbiamo chiesto all'amico musicista e cultore di popular music Giorgio Signoretti una riflessione a caldo sul riconoscimento al cantautore, che per la prima volta va anche alla canzone e al suo legame ineludibile con la poesia.

DYLAN, IL NOBEL E IL SECOLO AMERICANO [di Giorgio Signoretti]

«L’attribuzione del Nobel per la Letteratura a Bob Dylan non dovrebbe stupire, se non per il fatto di arrivare con qualche decade di ritardo. A stupire sono piuttosto gli strilli che l’accompagnano: pochi ma sonori, come quelli dei folkie ortodossi al festival di Newport del 1965, di fronte ad un’oltraggiosa e mondana chitarra elettrica. Sui fischi del nostro 2016, solo chi difende un piccolo orto credendolo in buona fede il giardino dell’Eden può seriamente pensare che quella straordinaria poesia di popolo che è la canzone folk debba restare ancora esclusa dal riconoscimento accademico, specialmente dopo quel "secolo americano" che ha riportato l’oralità sintetica e folgorante del blues e del rock al centro di un’estetica letteraria sempre più esangue ed estenuata. A quella ritrovata oralità, materna, antigerarchica e nutritiva, si sono abbeverati quasi tutti, anche qui in Europa. Poeti e narratori dell’ultimo mezzo secolo, sia pure con diverso stile, hanno finito col risciacquare i loro panni in acque americane, quelle fangose del Mississippi o quelle più fredde e urbane delle baie di San Francisco e New York, dove Dylan era la verità letteraria, ancor prima che musicale. Qualcuno, distratto, si è perso lo sguardo attento con cui il grande Ginsberg cercava di indovinare il meccanismo mentale del giovane baciato dal mistero della parola poetica viva? O non si è accorto che il respiro epico, scomparso da un occidente postmoderno, frivolo ed autoreferenziale, continuava ad uscire impetuoso da quei solchi nel vinile ben più che da mille pagine illustri? Davvero coloro che oggi fischiano in direzione di Stoccolma hanno disimparato il canto antico e sanguigno della poesia, al punto da esigere che esso venga espulso dai saloni letterari di cui si sentono custodi? Spiegare perché Dylan è parte essenziale della letteratura poetica del secondo Novecento a qualche anima forse impaurita dalla forza del dionisiaco, o forse terrorizzata dalla propria possibile irrilevanza nelle future antologie scolastiche, è impresa difficile. Più sensato brindare a quei signori svedesi che si sono idealmente appesi al collo una non comoda chitarra elettrica e hanno finalmente preso la decisione più inevitabile della loro vita, caricandosi sulle spalle almeno una parte di quei lontani fischi di Newport, insieme a questi più recenti.»

Immagine di copertina: The Freewheelin' Bob Dylan, Columbia, 1963. I testi di Bob Dylan in:

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