Enzo Mari: un'idea di progetto
20 10 2020
Enzo Mari: un'idea di progetto

Un ricordo del designer milanese (1932-2020) e delle sue partecipazioni a Festivaletteratura

Artista, teorico, sognatore: la parabola creativa di Enzo Mari (1932-2020), scomparso ieri a ottantotto anni, è stata una fonte d'ispirazione per centinaia di progettisti. In oltre sessant'anni di attività la sua immaginazione ha preso miriadi di forme, dalla grafica al disegno industriale, approdando nelle principali gallerie d'arte del mondo e incarnando la migliore creatività italiana degli ultimi decenni. Le sue opere più celebri, dalla Delfina alla Sedia N.1, sono senza tempo, tanto quanto la sua opera grafica, espressa anche da capolavori della pubblicistica per bambini come Il gioco delle favole e L'uovo e la gallina (con Iela Mari).

È bello – e nel contempo difficile – ricordare i suoi interventi a Festivaletteratura (l'ultimo nel 2010 al Bibiena, assieme a Enrico Ragazzoni, da cui è tratta l'immagine di copertina): bello perché chi ha potuto ascoltare Mari ricorda bene quanto fosse cristallino nell'esprimere la propria visione dell'arte; difficile perché la sua parabola creativa è stata un tutt'uno con un'epoca segnata da enormi attese e fallimenti, che ancora oggi traspaiono nei paesaggi urbani, nei tessuti produttivi, nell'evoluzione del lavoro. Sono le tracce di un'Italia che uscendo dalla guerra cercava una forma nuova del vivere, un'utopia della ricostruzione, conoscendo in quello stesso agire un suo intrinseco disfacimento. Per questo il pensiero oggi non può non correre in particolare al suo primo incontro a Festivaletteratura 2000 (Qualità, quantità), in cui era stato accompagnato sul palco dallo scrittore premio Strega Tiziano Scarpa, e di cui vi riproponiamo sotto qualche estratto.

In un'ora di dialogo si riconoscevano tutte le peculiarità che hanno reso fondamentale la sua opera, a partire dall'esperienza del dopo '45 a Milano: «In quegli anni era una città che amavo molto perché era piena di operai, di artigiani, di letterati, di artisti, di banchieri. Tutti quanti, indipendentemente dall'estrazione sociale, sentivano il bisogno di costruire la città, di progettare una città nuova, che voleva dire progettare una cultura nuova». Nello stesso tempo, le sue parole testimoniavano quanto fosse stimolante crescere in un contesto in cui la fabbrica e l'industria giocarono un ruolo centrale nel dare una forma, sia pure ingenua, a un'idea di arte: «ho cominciato a fare l'artista e, contemporaneamente, nel fare l'artista, il problema che avevo era quello di capire in che cosa consiste questo lavoro, che cos'è la bellezza, perché lo si fa. Subito dopo mi sono immaginato che se fossi entrato nella fabbrica e avessi sollevato i problemi della qualità della forma all'interno della fabbrica, forse avrei aiutato di più il processo di cambiamento del mondo».

Ogni ricordo biografico, nel suo ragionamento, si accompagnava naturalmente a considerazioni sul senso dell'arte, sul difficilissimo rapporto tra creatività, sistema industriale e società dei consumi, che per certi versi è stato una costante delle sue considerazioni teoriche, sul carico di innovazione che ogni progetto porta con sé, indipendentemente dal suo successo presso il grande pubblico («un oggetto nuovo, se un progetto è nuovo, è sempre molto difficile, non è mai capito esattamente, non trova mai immediatamente un grande standard di produzione»). «Sostengo sempre – concludeva Mari – che la forma e il suo significato, come già dicevano i greci, sono la stessa cosa. Non è possibile separarli. Sono due espressioni per raccontare la stessa cosa, sono due corni che descrivono la stessa cosa. Il discorso è inquinato a livello generale perché quando si parla di significati si parla di significati falsi o di forme false. Se si guarda bene la città, se c'è qualcosa nella città che fa orrore, lì vale la pena intervenire sul progetto».

Festivaletteratura