Il carcere è una condizione dell'anima
7 9 2017
Il carcere è una condizione dell'anima

Faraj Bayrakdar: Versi liberi in un luogo stretto

Nelle piazze del Festival si raccolgono le storie di chi ha perduto la propria terra. Chi ha dovuto allontanarsi dai terreni di conflitto o da un regime oppressivo, trova qui uno spazio per raccontare la propria condizione. Come K. Thùy, M. Thien, T. Aw, J.E. Agualusa, E. Kurniawan, F. Bayrakdar, H. Parker: sono queste alcune delle voci internazionali del Festival.


Nonostante i quattordici anni di carcere e torture a cui è stato sottoposto durante il regime di Hafiz Al-Asad, padre dell'attuale dittatore siriano Bashar, Faraj Bayrakdar non mostra rancore né collera. Che tipo di uomo si diventa dopo anni di torture, isolamento e crudeltà, per reato d'opinione? L'autore de Il luogo stretto, la raccolta pubblicata quest'anno da Nottetempo, non ha dubbi quando afferma: «Stare in carcere cambia il modo in cui vedi la realtà che finisce per sembrarti irrazionale. Noi detenuti di lungo corso sappiamo persino come si muove una formica, come vola una zanzara. La cosa più importante, in fondo, non è la detenzione ma il rilascio. Se una volta fuori dal carcere si ritrova una famiglia e degli amici con cui poter fare un percorso di riabilitazione, ci si può reinserire. Altrimenti si può solo degenerare.»

Nei lunghi anni di isolamento e carcerazione Faraj ha iniziato a comporre poesie. Non avendo carta e penna o qualsiasi altro strumento di scrittura, ha utilizzato l'unico suo mezzo a disposizione: la memoria. Una volta uscito dall'isolamento, ha iniziato a scriverne alcune su filtri per sigarette poi arrotolati e inseriti in piccoli quadretti che regalava alla figlia durante le sporadiche ore di visita. Faraj ha così composto sette raccolte di poesie, che durante l'intervento a Festivaletteratura ha declamato con voce ferma tenendo in mano una copia del testo, solo come forma di conforto.

Fra tutti gli aspetti del carcere che ha portato con sé, l'autore ha sottolineato l'importanza del silenzio che «scandiva il tempo durante le sedute di interrogatorio e tortura. Quando mi chiedevano i nomi dei miei compagni di partito, quando mi chiedevano i luoghi in cui ci incontravamo, io tacevo. Così sconfiggevo il boia. Perché io non sono un supereroe ma possiedo qualcosa che lui non aveva e non ha: una moralità. Credo nella democrazia, credo nella libertà, questo mi dava e mi dà la forza».

Proprio quando parla di valori Faraj Bayrakdar si fa lapidario condannando il regime che ancora oggi tortura e uccide migliaia di siriani che, come lui, lottano per un paese libero. Tutte le speranze sono riposte nelle nuove generazioni che «sanno bene cosa vogliono e non hanno paura di manifestare, di farsi sentire, di resistere».

Ecco l'intervista che l'autore ha fatto insieme ai volontari del Festival

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